Dialetti #6: Francesco Sassetto

 

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Presentiamo una poesia tratta dal volumetto Xe sta trovarse, Samuele Editore, 2017 e una breve nota di lettura a cura di Patrizia Sardisco

 

MAGIO

E tante robe de l’amor go da imparàr e
de ti che ti me compàgni e te piase
la me vose, i me oci, anca el me dente
sbecà, e queo che no so ti me lo disi ti
come ti fa co i putei de scuola a ménar
le létere a posto par far le parole.

E mi te tengo come la ciàve de casa in fondo
la scarsèla, come un lampiòn co fa scuro, ‘na
tovàgia a quadréti da vecia ostarìa, un vin
ciàro e s-cièto, ‘na canson che te rùsa
in récia, come ‘na roba che no scampa via,
na magiéta colór de quel glisine che là
in fondo de la cale, ti lo vedi

xe pena fiorìo.

 

MAGGIO
E tanto dell’amore devo imparare e/di te che mi accompagni e ti piacciono/la mia voce, i miei occhi, persino il mio dente/spezzato, e ciò che ignoro me lo insegni tu/come fai con i bambini a scuola a comporre/bene le lettere per costruire le parole//E io ti tengo come le chiavi di casa in fondo/alla tasca, come un lampione quando viene la notte, una/tovaglia a quadretti da vecchia osteria, un vino/limpido e schietto, una canzone che ronza/all’orecchio, come qualcosa che non fugge via/una maglietta color del glicine che là/in fondo alla calle, lo vedi,//è appena fiorito.

 

Nota all’autore

In un recente intervento radiofonico, presentando il dramma in dialetto friulano I Turcs tal Friùl, scritto da Pier Paolo Pasolini nel 1944 ed edito in questi giorni da Quodlibet nella nuova collana Ardilut curata da Giorgio Agamben, con una traduzione in versi in italiano del bravo Ivan Crico, il critico e semiologo Luigi Tassoni ricorda, tra le altre cose, come il grande autore delle Poesie a Casarsa “riconosce nel dialetto la possibilità di ritrovare una identità più vicina a un senso originario dell’uomo, e cioè non corrotto dalla Storia o dal cosiddetto progresso consumistico”. Ritornare su queste posizioni di Pasolini è stato per me lume e bussola nel precisare meglio le diverse, suggestive inquietudini che Xe sta trovarse, l’ultimo libro di Francesco Sassetto, edito dai tipi di Samuele Editore nella collana Scilla, mi aveva regalato e che continuavano a riproporsi con pulsante magnetismo alla mia attenzione di lettrice lenta e ruminante.
Da tempo ormai avverto come qualcosa di acclarato e pacifico, quasi universalmente riconosciuto dagli studiosi, che la reciproca contaminazione tra lingua italiana e dialetto abbia effetti rigeneranti per la stessa lingua italiana e consenta, d’altro canto, di aprire interessanti piste di sperimentazione e spazi di ricerca di verità, nuovo vigore e rigore nella scrittura in versi, cogliendo sonorità, suggestioni e soluzioni diversamente impensabili.

E davvero, nel bel libro di Sassetto, avverto ricerca, esplorazione del tessuto identitario, cura del senso originario delle cose e dell’Uomo e, aggiungo, avverto l’offerta di una mappa, una topografia della voce poetica dell’autore: sono convinta che la scelta del dialetto come lingua della poesia (sempre che di scelta sia possibile parlare, che non sia più corretto affermare che dal dialetto si venga scelti e parlati) sono convinta che tale scelta dica, e parecchio, del luogo natio di quella poesia, che essa sia, in effetti, il luogo in cui la poesia ha la propria sorgente. E immagino sia piuttosto chiaro che per luogo non intendo qui uno spazio geografico ma una posizione interna, un dispiegarsi e situarsi dell’Io che ne orienta l’ascolto e la voce, ripulendo entrambi dal rumore e precisandone l’opzione di poetica.
Nella poesia di Francesco Sassetto, un soave dialetto veneziano è, in questo senso, lo strumento artistico di precisione, la finissima lima cui si affida un’opera che a me appare di struggente e plurivoca sottrazione.
Ad un primo livello, attraverso l’uso di una lingua di verità («nella mia “vera” lingua, il veneziano » mi scrive in privato l’autore, consegnandomi i suoi versi e una prima lente per leggerne più da vicino il senso, “come le ciàve de casa in fondo/la scarsèla”) la poesia di Xe sta trovarse è un sottrarre all’occhio e all’orecchio estranei, a “i foresti che ride e ghe fa le foto” la delicata scoperta reciproca di due persone che finalmente hanno trovato l’un l’altra. La lingua, in questa prospettiva, assume la valenza di codice segreto ed esclusivo, luogo di reciproco riconoscimento, via verso casa: “e tornàr casa par le cale sconte (e tornare a casa per le calli nascoste)”, un preservare, un proteggere un mondo privato. Ma questo mondo, al di là delle intenzioni dichiarate (poesie d’amore in veneziano, recita rassicurante il sottotitolo), non si esaurisce nella relazione con la persona amata cui pure il libro è dedicato, ma include il vocio caotico e cacofonico della città, una Venezia amatissima e giustamente avvertita come sotto l’assillo e l’assedio del consumo, del proprio consumarsi erosa dal tempo, ma più e peggio dal consumo turistico sempre più aggressivo che ne fa una depredata e depredante Babele, pietra metaforica dello scandalo della Bellezza esposta allo scupio, alla dissipazione, alla svendita. Sotto questo aspetto, la poesia di Sassetto è un ben più largo atto d’amore, un amore che sottrae e porta in salvo tutto intero un microcosmo dal vortice, “salvessa dal gorgo che ingióte”, dal turbinio delle parole lise e delle troppe parole, delle parole rese cenere perché “brusàe in foghi che pareva scaldàr”. È amore che sottrae Bellezzza dall’abuso e dall’usura del tempo, uno “staccare, strappare”, come recita uno dei versi di Paolo Ruffilli posti in esergo, con le mani nude e potenti del dialetto, palme larghe e nessun orpello retorico, tenace come “ ‘na cansón che te rùsa/in récia, come ‘na roba che non scampa via”: la schietta verità nella vera lingua.

Patrizia Sardisco

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Francesco Sassetto, Xe sta trovarse, Samuele Editore, Collana Scilla, 2017

 

Dialetti #6: Francesco Sassetto

L’ombra delle colline

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Oggi il cuore e la memoria mi riportano tra le pagine di un romanzo di Giovanni Arpino, a un titolo forse meno noto di quel Il buio e il miele, da cui nel 1974 fu tratto il film Profumo di donna, per quanto il libro che sento l’urgenza di rileggere valse ad Arpino lo Strega del 1964.
L’ombra delle colline mi pare debba essere riscoperto e attraversato, oggi – e dico oggi in senso letterale nella ricorrenza della Liberazione, ma anche oggi per dire dei giorni confusi e distorti che stiamo vivendo – come lo stesso viaggio a ritroso del suo protagonista, dalla Roma degli anni pacificati alle Langhe della Resistenza, dall’età adulta e disillusa all’adolescenza di lotta partigiana, da un dopo inquieto il cui senso sembra sfuggire alla presa anche a causa di un prima di cui si avverte confusamente che forse non si è avuto il coraggio di andare fino in fondo.

«La lapide è questa: il partigiano onesto, l’uomo onesto, è stato un tale che a un bel momento ha creduto giusto smetterla di rafficare, e oggi è un talaltro che rimpiange giorno e notte di non aver rafficato abbastanza. »

Ma sono davvero morti tutti, i partigiani, come diceva giusto ieri un giornalista di cui mi prenderò il gusto di non fare il nome? Nessuno più rimpiange il non aver spinto ancora più in fondo il cemento che doveva edificare e far forte la nostra casa? Cosa resta, oggi, di quella inquietudine, della stessa disillusione?
A tratti mi appare che la disillusione, incrostata di benessere, si sia come trasformata in una enorme installazione postmoderna, dove la giustapposizione di istanze diversissime si è fusa in un rigido mostruoso disimpegno privo di testa, senza colore, calore e memoria. E l’inquietudine ha assunto i contorni sfumati dell’ansia, paura del vuoto tanto quanto dell’altezza: una bestia a cui è facile dare una soma come fosse il più luminoso degli scettri e sussurrarle nelle orecchie nuove versioni della Storia.
Non è finita, non era finita. Dircelo francamente, per imparare un nuovo “rafficare” culturale, con ogni mezzo pacifico, in ogni angolo del Paese, in ogni piega di tempo che qualifica la nostra convivenza, un nuovo “rafficare” che scuota e sposti la tregua dal suo luogo di torpore e di sonno verso l’aperto dove la libertà non tema di mostrare le sue fragilissime ali, di spiegarle a misura di verità, controvento.
Leggo le ultime righe del romanzo di Arpino, con un senso di gratitudine profondissimo che urge nella mattina come il sole e l’azzurro premono dietro lo scirocco bianco che ci pesa sugli occhi. Cerco, cerchiamo ancora riparo all’ombra di quelle colline.

«Tutto è ancora qui, tutto è ancora presente, un minuto o un giorno o un anno possono confondere la nostra storia, un minuto o un giorno o un anno possono restituirci l’animo di ritrovarla, renderla nuovamente piena di noi… Non esiste ricordo da abbandonare come fosse una fredda, stanca cenere cui più non somigliamo: ogni vero ricordo è ancora un richiamo, una verità che ci lavora nelle ossa, un febbrile atto di sfida al buio di domani…
Forse ci toccherà soggiacere a un’eterna rassegnazione, e dovremo saper sorridere, mitemente, con dolore educato, entro le spire dell’obbligo quotidiano. O forse un nuovo slancio, un benefico fulmine, ancora ci attendono, più in là, per rapirci in una più ricca, misteriosa ondata, per renderci esperti di una salvezza umana che ancora abbisogna del nostro intervento… Forse laggiù dove s’annida il pericolo, noi, proprio noi!, risorgeremo salvatori…
Per ora, già chiaro risulta questo vantaggio: non ci sarà condanna per l’impresa che risultò impossibile, per la qualità non raggiunta; saremo condannati solo se rifiuteremo di esprimere il bene segreto che ci attende nell’umile alba di ogni giorno… »

Nell’umile alba di ogni giorno. Buon 25 aprile.

 

(Articolo a cura di Patrizia Sardsico)

L’ombra delle colline

Ogni goccia è mare #10: Antonino Caponnetto

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Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia con sole spento

 

Postazione permanente contro il femminicidio e la violenza di genere.

 

MILLE SOLI SI SPENGONO
quando una donna è mortalmente offesa
quando violenza oscenità follia
ne insudiciano il corpo
ne sfregiano e percuotono la mente
mille stelle si oscurano
quando contro di lei, giorno per giorno,
la tirannia malata
d’un maschio non più uomo, lui, che in fondo
odia se stesso e quelli del suo branco,
contro di lei, femmina madre donna,
senza sosta imperversa,
senza ragione. E d’improvviso uccide
in lei speranze e sogni.
Ogni bellezza in lei non ha più casa
ogni cosa è mutata nel suo opposto
ogni ferita è silenziosa colpa,
voglia di morte, odio senza fine.
Ma durerà per sempre tutto questo?

Di nuovo tu sarai
femmina madre donna, ancora e sempre
portatrice di vita, di bellezza
sorgente dell’amore quando il mondo
debellerà quel virus che lo uccide

adesso, qui, nel più nero dei giorni.

 

Antonino Caponnetto, da: Il sogno necessario (Niente guardiani, prego, alla Parola), Pellicano, Roma 2017

 

(articolo a cura di Patrizia Sardisco)

(foto: fonte web)

Ogni goccia è mare #10: Antonino Caponnetto

la finestra dei mirtilli

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[…] pagine zeppe scritte senza penna
facce di carne con bagaglio appresso
e storie sminuzzate negli sguardi
(Nicola Romano)

 

d:
22.49

una finestra sugli occhi
ho una finestra sugli occhi
sugli occhi ho una finestra

qualia visivo
la forma del mio – tuo senso sfumato d’arancia
il troppo nulla dei lenzuoli di paglia il modo da
pettinare il sole nell’acqua della manica ‘a ciuri

aspetta

non aspettare

la svolta arcuata; la stanza è nel nome di figlia l’
assenza sbottonata quel momento prima cesoia di
latte ai piedi batte la romanza degli uno a uno e dita
affollate

c’era

:
ricordi quando c’era l’inverno sulla prateria della bocca?
[e soffici pungevano i coralli tra i
denti e non faceva male la difesa degli specchi
[o nell’in – sogno dei sandali alla mia guancia un
vento crudo di carezza asciuga la pioggia dalle parole al
[seme crescerà un’ora quel vuoto di cielo
alle ginocchia? è mai tardi la carta a questa sigaretta di
[grano? scappa. mi illusione nell’acqua
della manica ‘a ciuri

un
attimo

era

:

tutto è sonno fuori
solo un davanzale
ho agli occhi e un
gelsomino di luna

era il monile di allora con la solita catenina e quella
[preghiera agli angeli come se fosse ancora il
giorno dietro l’avutru cunzatu ‘n mezzu a lu sonu anticu di
[la cummare quannu scinniva li vrazza di
la notti s’appuiava di ciancu a lu scialle nivuru di una
[miseria d’amuri; a tia cu ti lu dissi ca
chista vuci st’affunnannu dove a restare piccolo è solo
[questo immenso taciturno / rumore

 

f:
16.18

C’ho pensato e quanto a fuggire dove sono impensabili
i pronostici, le ferie retribuite,
le feste vicine ai fine settimana
per un appetitoso ponte e non ho pensato neppure
a come salutarti per l’ultima volta,
forse perché non era l’ultima
ma si dice sempre così e poi si ricomincia
con la fiala sull’accendino, l’acre sul comodino
l’ingegno per stillare un paio d’ore di realtà immaginata.
In quella domenica di Pasqua è stato il telefono
con quel distorto squillo a riportarmi
nella tua voce rotta di madre
che per una intercessione ombelicale
aveva previsto la mia fuga senza indirizzo:
dovrei dirti grazie o forse non dirti niente adesso
che per i tuoi settant’anni ti muovi
come una creatura impulsiva,
incapace di dirmi che sono stato un guaio
nella bellezza di un giorno d’agosto
e se ho soltanto parole nella mia povertà di talento
ho avuto almeno quello di perdere
le coincidenze con la morte,

e adesso è tutta qui la nostra storia
ogni sera davanti a un pasto
con il silenzio delle mandibole
che fanno a pezzi la paura di dovermi
un giorno chiudere la porta
per un viaggio che non potrò impedire:
però è stato emozionante averti stretto il cuore,
sfamarmi dal tuo seno e morire
tutte le volte con la certezza
che sarei rinato nel tuo sguardo.
Le parole adesso chiamano da sogni numerati
pagina dopo pagina mi accorgo
che siamo in tanti con la valigia pronta
e il sole a metà della distanza
e forse sei tu la stanza dove afferro notizie
esiliate dal televisore urlante
come un temporale in piena confessione
e vorrei gridarti d’abbassare il volume,
di fermare il rumore, ormai siamo in due
a doverci sopportare per quella coccia di dna (e inchiostro)
che ci lega come l’acqua alla sete,
il precipizio al suolo, senza neppure
avvertire il dolore… ma lui ora lo sai
non smetterà di sorprenderci
parlerà di noi come due turisti
incantati dall’inferno.

La prima svista è stata
voltare le spalle al tempo
senza ascoltare quei minuti
accorsi per l’eterno.

 

da La finestra dei mirtilli, Salarchi Immagini, Prefazione a cura di Anna Maria Bonfiglio, Ragusa 2019

daita     Daìta Martinez è nata a Palermo. Segnalata e premiata in diversi concorsi di poesia, ha pubblicato in antologica con LietoColle, La Vita Felice, Mondadori, Akkuaria, Fusibilialibri, Cfr Edizioni e Il Soffio. Dietro l’una è la sua opera prima, segnalata al Premio Nazionale Maria Marino. Autrice dei testi in video Kalavria 2009, nel 2015 ha vinto il primo premio per la sezione dialettale del Concorso “Città di Chiaramonte Gulfi”. La bottega di Via Alloro è il suo ultimo lavoro poetico. Nel 2018 è stata finalista – sezione opere inedite in lingua siciliana della 44° edizione del Premio Internazionale di Poesia Città di Marineo. È stata inserita nell’Almanaccco di poesia italiana al femminile Secolo Donna 2018, Edizioni Macabor.

fernando lena.jpg  Fernando Lena è nato a Comiso in Sicilia nel 1969 dove vive e lavora. Ha pubblicato diversi libri di poesia, il primo risale al 1995 con il titolo E vola via edizioni Libro Italiano. Dopo un silenzio di quasi dieci anni ha pubblicato una piccola suite ispirata ad otto tele del pittore Piero Guccione edita dalla Archilibri di Comiso e successivamente sempre con lo stesso editore una raccolta dal titolo Nel rigore di una memoria infetta. Gli altri tre libri risalgono al 2014 per i Quaderni Dell’Ussero dal titolo La quiete dei respiri fondati edizioni Puntoacapo, e al 2016 Fuori dal Mazzo, libro d’arte (edizioni fuori commercio) e La profezia dei voli edizioni Archilibri (1° classificato al Premio Poetika e al Premio Città di Castiglione Cento Sicilie Cento Scrittori, 2° classificato al Premio Moncalieri, 3° classificato Premio Internazionale di Poesia Don Luigi Di Liegro e finalista al Premio Letterario San Domenichino). Suoi testi sono ospitati in diversi blog e partecipa spesso in festival dove la contaminazione poetica si incontra con altre discipline artistiche.

 

(articolo a cura di Patrizia Sardisco)

(foto: fonte web)

la finestra dei mirtilli

Ogni goccia è mare #9: Franco Intini

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Neda Shafiee Moghaddam

Postazione permanente contro il femminicidio e la violenza di genere.

 

LA VITA NELLE MANI DEI PUPARI

 

Capii il principio di prestazione quando lottai con lui
non proprio io
ma una ragazza con un piercing al naso
e mi vergognai che lo facesse per me in un sogno triste
contro un egiziano simile ad un ramarro
che le spezzò le reni sbattendola per terra

Io potevo solo prendere un pezzo di cielo
cercare Dio
come avrei fatto con lo scoglio
che nasconde un granchio

ma ci mettevo tempo, inutilmente,
in ogni caso
non come il cuore della ragazza che aveva tutto
anche il suo dio

Così passai per la sua casa
e vidi che c’era un padre che si strappava i capelli
per la vergogna di avere una figlia
che si faceva uccidere piuttosto che abiurare

Il principio si ritirò in una pancia di lombrico
a rimpinzarsi di Executive center
prima di consegnare le chiavi
tra le mani dei pupari

Sconfitto quella notte
dagli occhi forti di un donna senza abiura
che somigliava all’altra nel penzolare

Franco Intini

 

(poesia ispirata dall’esecuzione di Reyhaneh Jabbari (26 anni) accusata dell’omicidio dell’uomo che voleva stuprarla e impiccata il 24 ottobre 2014, in Iran)

 

(Articolo a cura di Patrizia Sardisco)

(foto: fonte web)

 

Ogni goccia è mare #9: Franco Intini

Patrizia Sardisco legge Di tanto vivere di Anna Maria Bonfiglio

Presentazione Bonfiglio
Cristina Armato, Anna Maria Bonfiglio, Anna Annaloro Patti, Patrizia Sardisco, Gisa Maniscalco

 

Lo scorso sabato 9 marzo 2019, a Palermo, negli accoglienti locali di Prospero –  Enoteca letteraria, in collaborazione con l’Associazione Kaleidos,  è stato presentato il poema in quattro atti di Anna Maria Bonfiglio, edito da Caosfera Edizioni.
Con l’autrice hanno dialogato, insieme a me, Gisa Maniscalco, Cristina Armato, Anna Annaloro Patti.
Presentiamo di seguito il testo della mia relazione introduttiva.

*

Credo che i libri di poesia rechino sempre una qualche esperienza di ricognizione del confine. Confine che intendo qui non (o non soltanto) in senso divisorio ma, anche richiamando l’eco etimologico, come il particolare spazio nel quale si “finisce insieme”: non filo spinato, non muro, quindi, ma zona di transizione e incontro; forse anche area di tensione ma, certamente, luogo di sporgenza su un doppio versante, verso sé e verso ciò che è altro da sé.
In una raccolta che porta un titolo così largo e aperto come Di tanto vivere, trovo conferma a questa mia riflessione nel senso che avverto in questo libro l’esperienza di uno spazio-tempo in cui il con-finare, il finire–con, è uno spingersi e uno sporgesi verso il molteplice potenzialmente infinito dell’altro da sé: a partire dall’Altro interno, potemmo dire, cioè dalla moltitudine che abita la voce poetante, e con la quale entrare in dialogo è un inabissarsi “con una coda di pesce”; per spingersi fino a lambire l’Altro più distante, l’alterità del mondo reale che oltrepassa non solo i confini del corpo e le stanze del privato ma si porta oltre, alieno rispetto alla “prigione di una gabbia”, alieno da un microuniverso inteso tanto come grembo quanto come prigione, che dunque è allo stesso tempo protettivo e castrante e in un certo senso, per dirla con Vittorio Sereni, alibi e beneficio, luogo “d’inquiete ombre” dal quale poter essere “stella” e “profeta”, fosse anche di bagliori inutili e di “stagioni in declino”.
A me pare che i motivi dominanti del libro di Anna Maria Bonfiglio percorrano questo luogo-tempo, lo spazio non ancora chiuso dell’approssimarsi, nella veglia, nell’ incontro e nel vaglio, di due opposte traiettorie che, come due raggi che con-fluiscono verso un centro fino a toccarsi, definiscono un diametro e dunque un perimetro, i “discoperti contorni” di un cerchio che la parola poetica, “alga segreta/dell’indagata geometria” forse “non basta a ricomporre”.
Quest’area che si inscrive tra verità e immaginazione, tra grumo di realtà e immaginario, è identificata con il topos sempre assai suggestivo della stanza. “Stanze” è il titolo della seconda sezione della raccolta, e lungo le pagine la stanza s’incardina in quel respiro di confine da cui l’Io poetante inaugura i Discorsi , un ordine del discorso, si potrebbe dire, per quanto privatissimo e autarchico quanto le ragnatele che rodono “il pupo antropomorfo” nel salotto retrò. In quest’area di frontiera, Anna Maria attraverso la sua poesia sembra esprimere una ricerca di senso che non si sottrae dal rimettere in questione il proprio rapporto con il Tempo, con la Memoria, con la Verità, con la stessa parola poetica cui sembra affidato proprio questo compito di ricomposizione e di allaccio di nomi e cose. “Più che la sovversiva promessa di felicità” scriveva Franco Fortini, ”la poesia , se si porta ai propri confini, riafferma l’esigenza che gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza.” È la stessa esigenza, la stessa tensione che qui sembra interrogare i “brandelli scomposti della nostra vita/che un giorno – pare /saranno ricomposti” per quanto, a ben guardare “nessuno sa se è vero”.
Emerge, tuttavia, un punto di svolta, di frattura. La voce poetante del resto non lo nasconde, anzi, lo dichiara subito, fin dal primo verso del libro che inizia con un “Ora che…”; e di questi segni (di svolta) dissemina l’intera raccolta, marcando in più d’un testo un ora rispetto a un allora e a un poi. Avvertendoci che, oltre l’apparenza, vanno esplorati i “fiumi azzurri sotterranei”, e che i segni di questa frattura sono proprio “quello che non appare”. La svolta allora è forse da rintracciarsi in una consapevolezza nuova, permeata di disincanto, certo, e di una pena che però non è pena soltanto per il tempo che si fa più breve, o per il tempo della solitudine, ma pena per una pena non fino in fondo esperita, per un tempo non a sufficienza difeso, non pianto abbastanza, nonostante non ne sfuggisse la caducità: “Eppure sapevamo/che alle nostre spalle/…/” i giardini sarebbero sfioriti”.
Se questo è vero sul versante interno, dall’altro lato la poesia è però, anche, ciò che consente di sottrarsi al confinamento, e mentre “Abbraccia la libertà del cielo/con grido di migrante” si fa osservatorio dal quale mettere a fuoco il canto, letteralmente dalle stanze dell’immaginario poetico, in “un incendio che esplode e si fa verso”. La quarta sezione, dal titolo Miserere, è un “grido accorato di denuncia”, come lo definisce Valentina Meloni nell’acuta e attenta Prefazione al volume, veglia e canto per il mondo offeso, intrecciando un convincente fil rouge tra le sezioni del libro, tra interno ed esterno: storia privata e Storia, ricomposte, entrambe “sotto la pietra viva della pena”
Di tanto vivere, di tanto dire, restano dunque le “schegge/ del tempo vissuto” e quelle “minutaglie destinate ai gabbiani” hanno il bagliore adamantino di un boccone tagliente: di un residuo destinato a ferire ancora e ancora, mentre il canto s’innalza, e ancora più in là, quando l’eco del grido sarà voce dispersa.
Un certo gusto crepuscolare percorre come un brivido tutta la raccolta, negli stati d’animo: malinconia, abbandono, solitudine, pur senza sfociare mai nel patetismo, e un’amara ironia; nel materiale tematico: illusioni giovanili, volti, gesti, cose di un tempo ormai tramontato o “che non venne mai”.
Emblematico, in questo senso, appare il testo Minimo e infinito, inserito nella sezione Discorsi, e nel quale sembrano compendiarsi istanze poetiche e tema di questo libro, mirabile quanto a levità e forza espressiva nel volgere di pochi versi.

 

*

Minimo e infinito

Lasciatemi tutti i miei fiori finti
Il mio salotto retrò
il Pupo antropomorfo
róso da ragnatele autarchiche.
Li chiamo per nome uno per uno
uomini e cose e piccole creature
del minimo mio bosco ed infinito
– senza confini e reti –
nell’inquietezza di perdere
il loro nome e il volto
nella cupa foschia di un tempo morto.

*

Giorno dei morti

Al mattino era la cerca degli angoli
più oscuri delle stanze –
forse i Morti ci avrebbero premiati
entrando nella notte a piedi scalzi
o tramutati in misteriosi insetti.
La mosca, per esempio era zio Gino –
dieci anni e una polmonite.

La nonna raccontava della guerra
Da cui zio Raffaele tornò dopo
tanti anni dentro una teca lignea

(ombre del nostro immaginario
custodite dai Lari della casa)

Lo scotto era salire alla collina
e pregare in ginocchio –
mestizia a sacrificio
e per ringraziamento

Ci accompagnano ora altre assenze
brandelli scomposti della nostra vita
che un giorno – pare –
saranno ricomposti

nessuno sa se è vero.

*

Wait for sleep

Mezzanotte.
Mi perdo come sempre
nei ripetuti righi dei poeti
che scrivono di senso
e di nonsenso
seminando scarti semantici
a belletto di pensieri stranianti –
ermetismo di nuova fattura
che inaugura l’ennesima
avanguardia.
Non so se è insipienza
questo mio arrocco a difesa
della parola semplice e sguarnita
perla di liquido sentire
annuncio di aurora che ritorna
per carezzare l’anima nel deserto
di stupri e di assassini.

da Di tanto vivere, Caosfera, 2018 , Collana Alabaster diretta da Adriana Gloria Marigo Prefazione a cura di Valentina Meloni

 

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(articolo a cura di Patrizia Sardisco)

Patrizia Sardisco legge Di tanto vivere di Anna Maria Bonfiglio

Ogni goccia è mare #8: Tempesta emotiva

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Postazione permanente contro il femminicidio e la violenza di genere.

 

*

Dimezzata la morte – ammazzata due volte
Olga, come ti appendi al collo mio e di tutte
come appalti allo sterno
mio e di tutte il tuo appello senza timbro.
Perciò intreccio un setaccio a mani nude
lego voce e respiro il costato e la lingua
per levare il lenzuolo dell’onta dal tuo viso
fabbrico nuovo un crivo – scrivo per altra cernita
la dimezzata sorte sigillo del mio genere
ma, Olga com’è greve
come fa freddo il ferro al collo mio e di tutte
la giustizia strozzata – la pronuncia attenuata
la tempesta emotiva la bestia motivata
è un inverno che intenebra la linea delle schiene
e attossica il sereno. Olga, perciò
setaccio lemmi e lutto lo faccio a mani nude
per trarne stigma e sangue
fioretto di memoria
perché non se ne attenui il diametro stringente
al collo mio e di tutte – Olga, per tutti e tutte
scrivo un cappio di tenebra a memoria
un nodo sulla pena: Olga, che questo è stato
l’attenuata misura data a bere
è misura di stato
è stato, e questo è stato
un passo pedagogico potente
tempestivo ripasso a ridosso dell’ora
di mimesi di miti di minuetti e mimose
voi protestate tesi, noi ripassiamo assiomi
degli uomini la legge strangola la giustizia
la nuda proprietà della tua carne
per bilancia e per spada si dimezza a dovere
potere del setaccio patriarcale
le maglie strette occluse dal tetano letale:
di qua la mano oscura la rognosa questione
di là la raffinata insofferenza
già in foggia di morale assoluzione

Patrizia Sardisco

*

Forse alla parola
ma credo alla presenza.
Presenza indistruttibile
che sia dire o tacere
di certo non si arretrerà di un passo
sui diritti.
Che sia una voce muta o cristallina
si resti a sostenere il fianco caldo
la mano stretta a confortare il braccio
di sorella, di fratello. Non distinti.
Reggendo briglie dei precedenti
frenando il doppio assassinio verbale
di chi sminuisce ogni senso attraverso
lessico da tinte rosa
legittimando orrori compiuti
è questa la decostruzione
al galoppo.
Forse una dolce parola sodale
rifonderà un comune sentire.
La parità di ognuno è cosa ferma
conquista in discussione in tempi grevi
che occorre rinsaldare in fiume d’oro.
La proprietà di carne è inammissibile
coraggio, nostra voce, nostre dita
sfavilliamo.

Gianluca Asmundo

*

Shreds

Coro

 

eccole le macerie
da saltarci sopra
da assaltare predare fare
scempio pezzo a pezzo
a piedi uniti ferrati pesanti
saltare
sopra sterno gola testa reni
saltare sul pube e sulla bocca
non lasciare che strazi goccianti
carogna di golose oscenità
a seno aperto
a cielo scoperto


Signora


-era
la mia vita –

 

 

Gendarmi

 

così come l’abbiamo trovata
signore
così come si presentava
la scena del misfatto
del crimine della colpa dell’osceno
delitto un po’
scomposta, signore, un po’
esposta in vista lasciata a corrompere
gli occhi di chi guarda
così contorta signore
come l’abbiamo trovata
come si presentava
smembrata storta distrutta
bellissima


Anomen

le iridi.
la palpebra.
cornee e cristallini.
ciglia, sopracciglia, arcate
piano piano
con metodo
con tenacia voluttà e pazienza
parte dopo parte
 l e n t a m e n t i s s i m a m e n t e
portarti via tutto

-non conosco altro modo
per avere dentro
il tuo sguardo-


Coro

che i figli non vedano
che i figli non sappiano
la tela opaca del tempo
nessuna presa, oh!,nessuna resa


quel viso perfetto
l’immane schianto
quell’invitta bellezza
anche da morta


lasciano fiori e biglietti
crescono steli
anemoni d’aprile
violaciocche e ciclamini
lì dove le dita
dove intatta la schiena nel solco accolta
sembrava quasi dormisse
magari dormiva
ha dormito
tutto il tempo

non fosse per gli occhi

non ditelo ai figli
non glielo dite mai


di quegli occhi
sempre aperti


Anomen

e il cuore e il ventre e la pelle che copre
il petto
tra la gola e l’intestino
che gorgoglia dove la notte infila sapori

volevo esploderti dentro
così tacevo
perché mi udissi


eri la notte e il suo sapore
no che non te l’ho mai detto
potevo? io volevo
incorpare ogni frammento di quella vita con te
ma tu mi guardavi
non avevi che
gli occhi
che un giorno ho coperto, ricordi?

e anche così
riuscivi a guardarmi.


Coro

così larvale il cielo a terra in giù
e freddo. –


Signora

chi stava morendo?
chi ha cominciato?
chi era rimasto?
chi stava dove?
chi diceva ancora
sì?
chi ancora avrebbe
detto sì?

Coro


col cielo a terra in giù
continuando a dire sì



Anomen

Avere dentro, avere mio e per me solo
il tuo sguardo

Signora


Era
la mia vita.

 

Alba Gnazi

 

 

 

 

(Articolo a cura della Redazione)

(foto: fonte web)

 

Ogni goccia è mare #8: Tempesta emotiva

Maria Allo: Solchi. Alcuni testi e un breve post-it

La_parabola_si_compie_nei_risvegli_.jpg
Deborah Allo

 

*
In sogno il vento ha grandi occhi di brina
Polvere che imprime alle carni
Il disordine del giorno
Dalla gola una voce straripa
Invade l’aria annebbiando
Il corpo immenso del perdono
Qui resiste nel suo calore un grande cuore
Ci detiene e tutti ci contiene
Attendo parole antiche
In questo luogo non c’è
Altro luogo in cui vorrei essere
Ecco come la notte prende il sopravvento
Su tante solitudini straniere
Forse un destino c’è per questo cielo
Vaga già nel buio tra gli ulivi
Sui volti disperati
Ma davanti alla violenza non si cede
Fuori piove

 

*
La ragione del sangue investirà veglie
Di solchi ancestrali che forgiano
Prima di respirare
Verità inattese di altri canti ai giorni
Di colori tra le ciglia
Cerchi di limbi assorbono ragioni
E ogni cosa che resta
In questi cieli sfioriti
È gomitolo precipite di devastazione
Si snervano innesti di stagione
Su passi cadenzati
Aperti a cenni come chiodi
Dietro i rintocchi
Non vi è luce
Anzi delirio affilato dal libeccio
Nel deserto ostinato che ci coglie
Non si ha più voce
Anche se l’etna si arrovella nel fragore
E la morte reclina
A immaginarci ancora vivi

 

*
Sii il freddo che smorza i desideri
Nella fioca luce di notti solitarie
Sii lo strappo che tiene in vita il ramo
Con le mani unite
Sii luce che veglia
La memoria della Terra alla vigilia
Della risurrezione
L’odore dell’alba scorre nel rumore dell’acqua
E rifrange cieli mai visti con la coda dell’occhio
È questo vuoto a farsi corona in un albero muto
Imbrigliato nel solco di un giorno
A un tratto crolla la terra senza fondamenta
Dimmi può la parola antica e nuova
Darci consistenza farci deserto e vuoto
Non trincea di anime ferite
Spalancare le braccia nel bianco della nebbia
[futuro passato presente]
Ma a crepitare è solo abisso dentro un abbandono
Di qui la luce percuote glicini a stormo
Su assolate foglie
Con molteplici suoni dissonanti
Legati alla vita e modellati dal mare
Di qui esplodono gerani in verticale
Non lasciano scampo alle tempeste
Alla ruvidezza del tuo sguardo
Che affiora a tratti e incide sul coraggio
Ridisegnare distanze su omissioni calcolate
Fino al margine della coscienza

 

*
Scivola Tempo dalle dita e dalle radici del vulcano
C’è un’altra luna
Spira leggero in bocca il vento
Bianco di nebbia
Anche la pietà valica l’attesa
In un rigagnolo del tempo
Mi chiedo come trattenere il respiro
Tra un mucchio di pietre e l’infinito
Le parole di sempre percorrono
La stessa strada desolata
I nomi prendono forma dalla perdita o dal vuoto
Adesso è notte il deserto aleggia
Ardente sulle guance
Fende i marosi e tutto spegne nell’abisso
La parabola si compie nei risvegli dentro ogni inizio
Che ci strappa dalle notti e riafferma il prodigio
Di chi sta per ricominciare
Un senso di cose reali scalpita in cerca della terra
Che non c’è
In bilico la luce sfoglia già la notte
I nostri punti di forza sprigionano
Dalle crepe sotto i piedi

 

da Solchi. La parabola si compie nei risvegli, Prefazione a cura di Anna Maria Curci, L’arcolaio 2016 – FUORICOLLANA, Collana diretta da Fabio Michieli N.14

 

Post-it all’autrice

Di fessure, di crepe, di segni , di in-segnamenti ancestrali: in una terra-mondo devastata e resa opaca dal dire di un “fiato che non pesa”, in cui le sole trasparenze sono “le fessure scampate alle parole”. Di rivoli e calanchi e di altri suggestivi Solchi, ci dona saggio in poesia questo bel libro di Maria Allo, percorrendo la polisemia particolarmente fertile di un termine in cui si intrecciano e si ibridano piani semantici spesso antinomici che oppongono immagini di apertura e di riparo, di linee d’impluvio e di cavità subacquee, di tracce e di incisioni, e ancora di innesti e di uscite, di vie di fuga.
Di solchi e di direzioni arcaiche e arcuate, di assi curve si dice in questo misterico libro di Maria Allo, di piste entro cui dimora un’appartenenza dalla quale, ci avverte la voce poetica, non può darsi scampo, poiché “Non c’è rimedio alla curva/Dell’appartenenza”; di molteplici, di multiformi crepe e del pertinace radicamento nell’alveo non pacificato di quelle crepe; di aperture e lacerazioni, dalle quali tuttavia soltanto, sembra suggerire la seconda parte del titolo del libro, può darsi la sporgenza nella compiuta forma della parabola, nella sua duplice e coincidente accezione di traiettoria-parola che intercetta e adombra “Verità inattese”. È in figura di parabola, infatti, la sola traiettoria-tragitto tracciabile e percorribile per chi, non senza fatica e dolore (“Avanzare è anche soffrire”), assegni al vivere e al dire poetico direzioni equidistanti da uno stesso fuoco.
E il fuoco di questo continuum tra vita e poesia è, maestosamente, quello di un vulcano-padre che si erge solenne, possente e a proprio agio tra storia e mito, è ferita di fuoco nel cuore di un’isola-madre, “corpo immenso del perdono”, luogo di nascita e convintamente suolo d’elezione in cui “resiste nel suo calore un grande cuore”, isola crocevia essa stessa di storia e di mito nel cuore di un mare che tiene in ostaggio e che sembra non mostrarsi mai nella sua parte più profonda. L’Etna: ma insistentemente in minuscolo, nome comune innervato nel diuturno quotidiano: l’etna è il solco primigenio dal quale morte e vita hanno violenta e non sdipanata scaturigine, solco ancestrale che plasma, forgia a propria immagine prima della prima parola, “prima di respirare”, solco che intorno a sé traccia una sorta di spazio sospeso e assimilante, un limbo assorbente rispetto al quale ciò che resta “È gomitolo precipite di devastazione” che toglie nervo al transeunte e, soprattutto, sospende la luce e ogni altra voce sotto il peso del proprio fragore: “Con un pugno arcigno di silenzio”, “Non si ha più voce”.
E in effetti, come poter dire del groviglio di radici e “fessure nel deserto” di questi esseri–albero che siamo, di quello gnommero gaddiano di sovradeterminazione che l’occorrenza di termini come “gomitolo”, “grumi”, “ragnatele”, “tralci” “nodo”, mi riporta in mente, come poter dire il nostro essere “Memorie sommerse”, il nostro essere “carne e vuoto”, “soli e senza un grido”? Come, se si oscura alle spalle la “sola testimone”, la parola, e se “non c’è sintassi che traduca” ? Come dire la dissidenza, la dissonanza?
Occorrerà consegnarsi, restituirsi interi, “Senza afasie”, far di se stessi “segno senza ambiguità”, strapparsi dal volto “La maschera dell’ombra”, “Distillare l’essenza”, sorprendere Verità, dischiuderne il mistero alla nominazione.
Nella rarefazione della veglia/vigilia che impregna la poesia ininterrotta di questo poema franto, un tempo-Tempo si apre, si disallinea, scivola, piange colto nella sua nudità e “I nomi prendono forma dalla perdita o dal vuoto” : è una potente immagine, quella restituita da questo verso, che richiama gli studi dello psicanalista britannico Wilfred Bion, secondo il quale il pensiero nasce dalla frustrazione, dalla mancanza: nella riflessione bioniana, è l’assenza della cosa che diviene pensiero della cosa. Allo stesso modo, mi pare di poter affermare, nella percorrenza dolorosa e tensiva della propria curva spaziotempo, coincidenza di percorso lirico e vitale, la voce poetica penetra il vuoto dei Solchi e vi abita il silenzio, vi abita il fondo vitale del proprio radicamento: trae la linfa della “parola antica e nuova”, e spalancate le braccia compie la propria parabola. È un risveglio, ma è ben più di un risveglio di fede, è un’identificazione con essa: “Sii la fede che tiene un’idea”. È un’identificazione con la luce che veglia sulla memoria, ma non più nell’abbaglio accecante del giorno bensì con la coda dell’occhio, per visione laterale, periferica, quella dei recettori sensoriali attivati nella luce del crepuscolo mattutino, “nell’ora incerta/Che precorre il giorno” quando il Sole illumina per diffusione e riflessione. In questo Tempo nuovo, la tensione si attenua, come acutamente osservato da Anna Maria Curci in chiusura della sua puntuale Prefazione al volume, “ma resta irriducibile”. Lo scioglimento è delle braccia, finalmente spalancate, e nel canto, quasi senza più corpo né confine, e “Sarà un unico respiro atemporale/a farci adempimento e condivisione”: ma il nodo, il groviglio, non conosce distensione, gli gnommeri sembrano anzi ripiegarsi a formare strutture di superiore complessità, con la ricorrenza di versi e interi brani di poesie precedenti e riflettendo a ben guardare anche nella costruzione del testo una concezione curva e aperta, in-finita, del mondo e di questa poesia, con il suo procedere in assenza di segni di interpunzione e per a capo e maiuscolo, come nel tentativo di afferrare ogni volta tra pollice e indice il bandolo di un nuovo inizio, il prodigio sull’orlo del ricominciamento, alla vigilia della risurrezione: “La parabola si compie nei risvegli dentro ogni inizio”.

Patrizia Sardisco

 

solchi.jpg

 

(Articolo a cura di Patrizia Sardisco)

foto: fonte web

 

Maria Allo: Solchi. Alcuni testi e un breve post-it

Ogni goccia è mare #7: Ilaria Grasso

cassandra langlois
Jérôme-Martin Langlois, Cassandra

 

 

Postazione permanente contro il femminicidio e la violenza di genere.

 

Cassandra

Attorno agli occhi hai solchi
per lungo tempo
scavati dal sale dell’incomprensione.
Pazza ti dicevano
eppure
la verità era per tutti in bella mostra
ma tu sola
prendevi e masticavi il veleno.

Apollo ti voleva.
Tu non lo volevi.
Apollo ti desiderava.
Tu non lo desideravi.
Apollo non si rassegnava.

Ti sputò sulla bocca
e tu sempre lì
a lavare
l’onta e la diffidenza
con le parole.

Non ti accorgevi che dietro la tua maschera stanca
c’era incommensurabile bellezza
e io che l’avevo vista
non posso non
essere tua viva testimonianza.

 

(Articolo a cura di Patrizia Sardisco)

 

Ogni goccia è mare #7: Ilaria Grasso

Patrizia Sardisco legge Elogi, di Franca Alaimo

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Lo scorso sabato 17 novembre, presso la libreria Macaione di Palermo, per la rassegna “Tempo di poesia”  ha avuto luogo la prima presentazione della silloge Elogi (Giuliano Ladolfi Editore, 2018) della poetessa palermitana Franca Alaimo, a cura mia e di Nicola Romano, con letture di Daìta Martinez.
Di seguito, vi proponiamo il testo della mia relazione introduttiva. Quella di Nicola Romano si può leggere qui.

Gli Elogi di Franca Alaimo

È notorio come nel mondo latino l’elogio avesse un carattere commemorativo o celebrativo e una lapidaria brevità, dato che per lo più veniva scolpito su tombe, su stele votive o su monumenti, oppure lo si scriveva sulle immagini degli antenati, per elencarne le imprese e le virtù.
In epoca medievale, invece, pare che i poeti abbiano cominciato a cimentarsi nell’elogio affrontando temi più bassi, o addirittura negativi, comunque certamente insoliti rispetto al passato.
E, più vicini a noi, anche scrittori e poeti come Leopardi, Gadda, Eco, hanno mostrato come, con un certo gusto del paradosso, le cose più biasimevoli, o le più semplici, cose che per la loro pochezza o banalità non meriterebbero alcuna attenzione celebrativa, possano essere fatte oggetto di lode e, argomentando alla rovescia, attraverso un’eversione dal senso comune, possano essere in qualche modo riscattate: aperto da uno sguardo nuovo, inedito, il reale viene offerto a nuove possibilità di prensione, sfaldandone la tempra monolitica e mostrandone una moltiplicazione di facce, di sfaccettature.
A me pare che, su questo solco, sia pure con moventi diversi, sia possibile offrire una preliminare collocazione al libro di Franca Alaimo, per gli oggetti dei suoi Elogi, oggetti minuscoli o di poco conto (cito a titolo di esempio una stampa cinese, diversi vegetali, piccoli animali, vocali, ma si potrebbe continuare) oppure addirittura controintuitivi (tra tutti, la morte ma forse peggio, lo stupro, l’orfanità …)
Facendo uso di una lingua chiara, che conduce al cuore del suo pensiero senza orpelli e senza avvitamenti, capace di elegante lirismo ma ugualmente capace di abitare le stanze fresche del parlato, anche gli Elogi di Franca Alaimo scolpiscono: sulle immagini della memoria più dolorosa, sui monumenti eretti ai miti dell’infanzia, sulle stele votive dedicate all’amore. Scolpiscono, gli Elogi di Alaimo, un proprio originale “cambio di passo” (qui sto citando uno dei titoli della sezione dedicata al tempo), il proprio sovvertimento controintuitivo, e sotto il sembiante di una poesia semplice, talora all’apparenza persino impulsiva e istintiva, ci regala (anche) una tessitura filosofica lievissima ma coerente.
Ma procediamo con ordine, consapevoli che potremo sporgerci solo da alcuni tra i molteplici versanti interpretativi che offrono un sentiero al nostro attraversare.

Sono partita da queste considerazioni sul genere letterario dell’elogio perché credo che questo libro vada affrontato a partire dal suo titolo, ponendo immediatamente la domanda sul perché un autore, oggi, avverta il bisogno di esprimere la propria poesia in forma di lode, o meglio per qual ragione le singole poesie che compongono questa biografia lirica debbano da noi essere lette come lodi, debbano, grazie proprio al titolo, venirci incontro anticipate da questo dichiarato portato laudativo. Se le leggessimo ciascuna per sé potremmo coglierne altri mille aspetti, ma l’autrice ce li pone in una specifica cornice.
E ancora di più: il libro avrebbe potuto intitolarsi, poniamo, La vita è bella e avere come sottotitolo la parola “elogi” per indicare il genere letterario di appartenenza: invece no, Elogi è proprio il titolo, isola senza sponda tutta da esplorare. Perche? Ecco, io vorrei lasciare in sospeso questo primo interrogativo, anzi tenerlo come sfondo al discorso che tenterò di portare innanzi, augurandomi di riuscire a imboccare il sentiero giusto per tornarvi.

Aprendo il libro, incontriamo subito una brevissima nota dell’autrice, quasi un’avvertenza, attraverso la quale veniamo a conoscenza del fatto che le poesie che leggeremo sono state scritte in un arco temporale che supera i vent’anni. “Arco” lungo il quale, come su un ponte, queste briciole, questi lucenti sassolini, sono stati gettati a tracciare un percorso ma chissà perché non più ripresi. Un arco, un arco come un ponte, quindi un camminamento sospeso, che però a lungo è rimasto invisibile o, meglio, non aperto, un varco non attivo. E allora non possiamo non chiederci: qual è la peculiarità di una raccolta che abbraccia, ma in silenzio, inedita, un tempo di scrittura tanto lungo? Quali sono le ragioni per le quali un testo poetico rimane confinato in un cassetto nel tempo, mentre per altre poesie coeve si prefigura e si realizza la pubblica condivisione? In forma di domanda, azzardo un abbozzo di risposta: perché lasciare briciole dietro di sé, se non per l’intenzione (conscia o no, poco importa) di ritrovare la strada verso casa, qualunque questa sia, comunque questa sia stata?

E andiamo finalmente all’impianto del libro, altro elemento ricco, a mio avviso, di implicazioni significative.
La nostra autrice decide di rivolgere le proprie note laudative al niente, al tutto, al tempo e all’amore, esattamente in quest’ordine e anche questa cosa mi si impone come degna di attenzione, insieme al peso specifico assunto da ciascuna sezione, con quella dedicata al tema del Tempo che, centrale, di gran lunga più corposa e preceduta dal Tutto, assume il ruolo di campata, nell’ideale ponte che il libro costruisce, lasciando come spalle, come colonne laterali, il Niente da una parte e l’Amore dall’altra, simmetricamente di 14 e 13 testi.
Eccoci dunque una mappa per il nostro attraversare: dal Niente all’Amore attraverso il Tempo, abbracciando Tutto.
Ed ecco, chiarissimo mi pare, il pensiero forte di questo libro, biografia in versi, elogio della vita, chiave che dissigilla il senso primigenio dell’essere nel mondo della nostra Autrice.
Un arco, un ciclo di vita, come direbbe la Psicologia, che da Franca Alaimo è assimilato a quello lunare che, solo, “raccoglie insieme/il tempo dell’infanzia e della morte” (Alberi, p.12). Un arco reso in un canto che trova in un certo abbassamento dell’io lirico (“Io: dico, sapendomi minuscola”, Il peso dei nomi, pag. 28) le proprie note più congeniali, le altezze empatiche e mature da cui cogliere e restituire gli elementi di rottura, lo squarcio, il sovvertimento, la mite ma ferma ribellione, che mi appare ravvisabile nelle tante avversative, nei frequenti ma e però che introducono le chiuse o comunque un’ideale seconda parte all’interno di moltissime liriche.
Dal Niente all’Amore. Dal nostro essere niente, nel senso di “indiviso tutto”, come ben sottolineato da Daìta Martinez nella quarta di copertina, oppure nel senso di una meno solare lusinga nichilistica? E poi, dal niente a quale amore?
Sono due abissi, si badi: il Niente (“la vita/che lentamente si sbriciola/(…), notti come pendii franati”, pag.14) e l’Amore che io ravviso nel continuo richiamo al divino e in un sorprendente, sapiente disseminare la parola gioia che germina nel rorido degli innumerevoli elementi naturali e che si farebbe un errore, credo, a rubricare come mero sfondo: gli oggetti della natura a mio parere si impongono in figura insieme all’Io, insieme al corpo, corpo essi stessi, vividi della stessa sostanza divina, anche se penso che qui non si stia parlando del Dio cristiano (per quanto fra i testi la parola dio ricorra tanto in maiuscolo che in minuscolo).
Sembra di sentire tra le pagine, nel vento così frequentemente evocato, un panteismo, una sorta di “tutto è pieno di dei”, trasfigurarsi e germinare in un “tutto è pieno di gioia”, attraverso la nuova prensione delle cose consentita dalla poesia, dal suo rivoluzionario sovvertimento della realtà, che innalzata e universalizzata consente al poeta di uscire dalla sua pesantezza opaca e di cantarla da una distanza che è precondizione di conoscenza ma, elemento che ritengo centrale nella poesia di Alaimo, immediatamente di ricongiungervisi , di ri-conoscersi come parte del tutto in una dimensione nuova, in un afflato profondo con il Tutto che non spaventa e soprattutto che salva. Superato l’horror vacui, superata l’angoscia di dispersione dell’Io, di perdita dei confini dell’Io, avvertirsi minuscoli e parziali, è ben diverso dal sentirsi annichiliti. È invece sentirsi parte di un equilibrio, di un ciclo , di un cosmo che si contribuisce a ordinare anche se rinunciando a cercare un senso che non sia questo esserci, (“senza che vi sia un vero senso” ,Canne e vento, pag. 20): e le Canne al vento di Deledda diventano Canne e vento e dice Alaimo: “un evento banale nel lungo movimento/che non ha altra sponda/se non dubitando e oscillando/essere vento per il respiro della canna/canna per il soffio del vento”. Sono versi bellissimi che basterebbero da soli a farci cogliere la direzione della riflessione filosofica dell’autrice, ma mi piace insistere sul soffio, su questo elemento naturale e divino nel quale mi pare di ravvisare una sorta di panteismo spinoziano: per il grande filosofo, Dio ossia la natura è in noi come in tutte le cose. Accettare questo pensiero è ciò che salva lo sgretolarsi dei giorni dal loro precipitare nel vuoto, nel niente. Ecco, in queste poesie, l’Io lirico avverte in sé, e nella realtà intorno a sé, la presenza di una pienezza di vita che lo avvolge e lo oltrepassa: il poeta avverte l’eternità, via via sempre meno confusamente. E con una invidiabile impennata di gioia si rende conto che l’essere umano non è un autonomo regno separato dal mondo ma partecipa del Tutto.
L’umana sete di felicità sembra qui identificarsi con la ricerca inesausta della capacità di sentire la gioia nel transeunte, nel doloroso, nell’incomprensibile, nell’infimo che caratterizza l’esperienza umana. Questo è possibile attraverso la scoperta poetica di un amore per la vita intesa come sovrapersonale cosa eterna e infinita, in grado di riempire l’animo di pura letizia e renderlo immune da quell’angoscia di dispersione e vanità di cui dicevo sopra.
“però adesso ripeto il mio sì/perché nulla si disperda fra me/e tutto ciò che ha respiro” (Al mattino, di nuovo, pag. 35): ecco questo libro è il dell’Io lirico, questo continuo tenace costruire e attraversare, questo ponte tra sé e la vita, tra noia e gioia, come ci dice Franca Alaimo ponendo queste due parole in rima nell’ultima poesia della raccolta, dialettica tra distanziamento mortifero dalla realtà, supina accettazione del destino e disperazione, da una parte, e accesso a una salvezza mercé “l’eccesso dell’amore”, pronta ad accogliere il soverchiante di una annunciazione capovolta, la tentazione del troppo che ancora gonfia il petto.

Ed ecco dunque la risposta al mio primo perché, quello relativo al titolo: si parla di elogi, qui, sembra dirci Alaimo, ma non soltanto: ci dice che si deve elogiare. Se lode è segno d’amore come partecipazione profonda, non può che essere di elogio un canto alla vita, anche quando a esser cantate son le più drammatiche tra le pagine vissute, anche quando riguardano il pensiero o l’esperienza della morte, anche quando affondano nella memoria della perdita più dolorosa o della più vile tra le violazioni che una donna possa subire.

Patrizia Sardisco

elogi copertina

 

 

(Articolo a cura di Patrizia Sardisco)

(foto: Clelia Lombardo)

Patrizia Sardisco legge Elogi, di Franca Alaimo