Marco Armando Ribani: nota critica di Franca Alaimo e sette poesie

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Presentiamo di seguito una lettura di Franca Alaimo di Voci dal canto generale di Marco Armando Ribani insieme a una selezione di testi.

 

Dolore, gioia, perdita e rifioritura. Questi sono i suoni interiori dell’universo poetico di Marco Armando Ribani, traboccante di immagini e di musicalità e di cromie, vicinissimo alle radici della Sapienza, capace com’è di trasfigurare anche la realtà più sconciata con la luce dell’amore.
Nello scontro ed incontro fra ombra e luce consiste, infatti, l’elemento inconfondibile di questo autore, che parla al lettore con un linguaggio intenso e profondo sebbene così limpido.
Anche il tempo, quello della storia dell’umanità, quello delle storie dei singoli e delle creature tutte (che attraversa i testi, a partire dai ritratti di tanti vecchi raccontati nella prima sezione, a quello dell’ultima, che mette in scena l’eterno ciclo delle stagioni) viene ricondotto ad una sorta di carità infinita in cui vita e morte si abbracciano, ad una necessità di trasformazione dalla dimensione della materia transeunte all’altra eterna dello spirito, dalla sparizione dallo spazio concreto alla resurrezione in quello verbale del poeta.
Scriveva, infatti, Rilke che i poeti sono coloro che “dicono sì alla sparizione e per i quali la sparizione può essere pronunciata” divenendo “parola e canto”.
Lo scontro fra dolore e gioia, fra vita e morte è spesso introdotto lessicalmente dalle congiunzioni “eppure”, “ma”, oppure è affidato alle domande (i testi sono spesso affollati di punti interrogativi), o a iterazioni struggenti e suggestive; e, cosa ancora più significativa, sembra che tutto il creato partecipi a questa sospensione fra spavento e stupore. La Natura tutta diventa in questa poesia un luogo di rivelazione, in cui elementi terrestri e celesti assumono un valore epifanico.
Il gruppo bellissimo di testi dedicati alla luna, consacrata dalla migliore tradizione poetica, potrebbe rimandarci alla luna del Leopardi – simile è la suggestione ed il respiro immenso della notte; e il tono, come nelle poesie del recanatese, è alto e sublime, e lo sgomento contemplativo ci afferra allo stesso modo – e però Ribani, a differenza di quello, dà, infine, parola alla luna che esorta gli uomini a vivere la propria vita e a trasformarla in canto, quello che “aprirà una larga e fertile ferita/ nello splendore della miseria”.
Ora basta leggere questi due versi, per rendersi conto di un’altra caratteristica del linguaggio dell’autore: la ricorrenza di sintagmi o espressioni di natura ossimorica, che stringono in un unico elemento verbale gli opposti, i quali, partecipando l’uno della natura dell’altro, si fondono in una sintesi che li supera.
Tutto ciò dà ai versi un’intensità drammatica, nel senso che sembra mettere in scena una serie di personaggi (uomini e creature degli altri regni) che rappresentano un concerto di voci (Voci del canto generale è, appunto, il titolo della silloge) dialoganti, portatrici di emozioni, di archetipi e metafore del profondo. Il sentimento da cui nasce ogni voce è quello di una minaccia continua alla vita, alla bellezza, all’ordine, ma dal loro insieme, dal dialogo senza sosta si alza, infine, un inno di fede e l’esortazione a pacificarsi con l’esistenza.
Leggere queste poesie, allora, è come, oscillare fra scoramento nichilistico e misticismo, fra immanenza e trascendenza, senza per forza voler dare a questi termini un valore strettamente religioso.
In fin dei conti, la poesia è un’espressione squisitamente mistica, se è vero che nel suo grembo si fondono visibile e invisibile, effimero e assoluto; se è vero che la parola poetica è di per sé un rito, una liturgia.

 

Palermo, 22 Novembre 2017

 

Testi

I

Veniva poi la neve
e noi con la pelle aperta delle mani
oscillavamo tra colpa e gioia
prima di portarla alla bocca
ed in quel freddo che ti schiantava i denti
c’era come un risarcimento naturale
di tutti i gelati mancanti dell’estate

Ma nelle case degli edili
di neve non si poteva essere contenti
perché era colpa sua se si chiudevano i cantieri
e per l’umore degli adulti era come un lampo
colmare la distanza di pensiero neve-uguale-fame

Allora ci andavamo di nascosto
noi bambini a ridere e rimpinzarci
di neve anche le tasche e le mutande
e con le code d’occhio maliziose godevano
degli sguardi invidiosi dietro i vetri
dei figli delle case senza fame.

 

II

Ti amo comunque mi diceva lei
Non è abbastanza mi dicevo io

Partivo. Per ansia di meraviglie. Per tornare diverso.
Ma le Penelopi implacabili:
Sei tu. Sei sempre tu. Ti riconosco.
Nelle parole dell’abbraccio una rabbia e un fallimento
Che hai viaggiato a fare
Se torni con un carico di nulla. Ancora una volta nudo alla meta.
Sei sempre tu.
Tre parole acuminate a ruminare dentro il sangue

E in cima a tutto Lei.
La vecchia
Vecchia Penelope con dita rattrappite di memoria
sfinita non d’attesa
ma da un inseguimento di pensiero intorno al mondo.
Sei tu. Sei sempre tu.

L’amore è una forma di condanna,
No mamma. Non sono io. Non sono mai stato io.

Costretto nel ritorno ad ammainare gli stendardi.
A nascondere i bauli ed i cammelli,
Chincaglierie. Piatti. Cianfrusaglie.
Il tutto camuffato di tesoro.

Tutta una carovana insacchettata.
I cavalli. I ciuchi sardi. La R4 rossa.
Il comunismo estremo. I tarocchi. Un po’ di Budda grattugiato.

Tutto schiantato.
Sei tu. Sei sempre tu.

 

III

 

Mia madre nascose al suo interno la mia immagine
e non la partorì. Partorì la carne, ma si tenne il mistero.
In vita mi trattò sovente come uno sconosciuto.
Spesso vedendomi mi cacciava tra le mani una moneta.
Mi chiamava Luciano.
Oppure con fervore improvviso mi prendeva le mani
“Vuoi conoscere Luciano?” No mamma, non m’importa
Va bene così.
Chi crede che io sia mi domandavo. A volte all’improvviso
cercava di baciarmi sulla bocca. E io spingendola via
Mi domandavo chi ero. Cosa vedeva quando mi guardava
Così a lungo che sentivo il calore dei suoi occhi sul mio culo.
Così fu il dubbio che prese il sopravvento.
Chi ero io se persino mia madre non mi riconosceva.
Non c’è peggior condanna per un impostore
di quella di dimenticare di chi si è preso il posto.
Così in questa vita che pure è stata mia
ho recitato sempre ruoli secondari perché
il protagonista sconosciuto era sempre altrove.
Adesso sono stanco ma non oso morire
Un poco per paura di come sarò da morto
ancora un impostore e quindi vivo? Oppure
sarà lui a prendere il mio posto beffandomi
perché non lo vedrò mai?

 

IV

Conosci l’opera traboccante della gioia?
I vini gustati insieme a coloro che entrarono
festosamente nella vigna e tra loro quelli che
elevarono i nostri sensi fino alle vette
alcuni hanno nutrito le nostre visioni del mistero e della bellezza
e ci hanno per mano condotto sulla proficua strada dell’impossibile
Persino questo lutto è la nostra felicità e quindi bacio
le tue mille scintille
e ci vedo il tuo volto perché tu sei la parola scintilla.

 

V

Luna piena

La luna questa notte è un enorme occhio aperto
per vigilare sul passaggio degli umani.
La tenebra è un manto di cobalto che nasconde
la misera ricchezza delle cose.
La guarda un ragazzo che questa notte fugge.
Lascia la casa. Esce. Tracima. Con l’entusiasmo del torrente
lascia la casa
Calpesta. Sprofonda. Emerge.
Nel fianco instabile della montagna intrisa
Calpesta, Sprofonda. Emerge
Si ferma guarda il fluire di paesaggi e nubi di acque e fuochi
e poi all’improvviso li vede fuggire
nubi di acque e fuochi
laggiù nella valle un fluido denso e vivo di legno carne ed escrementi.
Sale l’odore di marcio del giorno.
Legno e carne ed escrementi
Salgono le voci di esseri viventi immersi in una fertilissima miseria.
Gomitoli di unico filo,
Immersi in una fertilissima miseria
Sale un odore acre di uomini sconfitti e taciturni.
Eppure il filo dell’esistenza ki fa sembrare perle
uomini sconfitti e taciturni
Il ragazzo sente la povertà del sogno che porta nelle tasche.
Sente che deve formulare una grande domanda
la povertà del sogno
Si ferma e con gli occhi innocenti rivolge una domanda muta alla luna
con gli occhi innocenti
Ma non accade nulla. Solo la luce inesorabile del giorno
comincia a cancellare la notte
Ma non accade nulla
Il ragazzo teme che la luna non gli indicherà alcunché
nel buio sprofondo della notte
nel buio sprofondo
allora vattene dice offeso alla luna, ma lei finalmente risponde
finalmente risponde
Aspetta aspetta figlio mio. Dice la luna –
Prendi questa vita questa. Che è tua.
Prendi questa vita questa.
Cerca il luogo dove le madri nutrono i figli con il latte delle stelle
con il latte delle stelle
giunge il sole. Mettiti in cammino e canta. Che sia un canto
Che sia un canto
che chiama la terra che chiama la madre
che chiama noi fratelli che chiama il fuoco che chiamo il fiato
che chiama la terra la madre i fratelli il fuoco il fiato

Non sa che quel canto aprirà una larga e fertile ferita
nello splendore della miseria
Non sa

 

VI

Chi chiama oltre la porta?
− La voce che rimane −
Viene per dirmi che è venuto il tempo
di entrare dentro le visioni
La voce chiama un’altra vita
per fare insieme la traversata della notte
Qualche dura stella già indora i cieli
e con i fili di un ragno assetato
lega tutti gli elementi del mondo

È il tempo che bussa alla mia porta?

Quanti anni possiedi?
mi chiede

Ho gli anni delle parole che sono state dette
e che ai soli si sono riscaldate

Ho gli anni dei vivi e dei morti che sono passati di qui
e sono in pace in solitudine sperduti

 

VII

Ho colpa se mi abbandono a questi momenti di pace?
In quanti ritagli marginali di città ci sono anime
e corpi abbandonati sotto il cielo
e tu possiedi una viva e preziosa solitudine
Ah! come è dolce navigare in questo cielo in questa sera
dove nei voli non c’è paura alcuna
poiché si ha diritto d’approdare nelle arie calme
quando si migra verso un altro tempo in cui non siamo esclusi
in cui esistiamo con la dolcezza e il sapore di sentirsi vivi

 

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Marco Armando Ribani è nato a Bologna nel 1943. Operaio, sindacalista, oste, animatore culturale, poeta, ha frequentato la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e come docente ha condotto diversi laboratori di scrittura autobiografica. Ha iniziato a scrivere poesie a 50 anni frequentando un corso dell’Università Primo Levi di Bologna.
Ha vinto il Premio Navile nel 1996. Ha creato e diretto la Piccola Editrice La Volpe e L’Uva e ha pubblicato diverse raccolte oltre le proprie Sotto i cedri del Libano e Sentieri. Per anni è stato organizzatore di serate di poesia nella sua Osteria del Montesino, in via del Pratello a Bologna. Attualmente vive in Francia, ospite della medium e scrittrice Patricia Darré, come poeta residente.

 

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Franca Alaimo è nata a Palermo, dove vive. È autrice di una quindicina di libri di poesie, di numerose prefazioni e di diversi saggi critici. Con il romanzo breve L’uovo dell’incoronazione, Serarcangeli, ha esordito nella narrativa. La sua ultima pubblicazione, per i tipi di LietoColle, è Traslochi (2016).

 

(articolo a cura di Patrizia Sardisco)

 

(foto: fonte web)

Marco Armando Ribani: nota critica di Franca Alaimo e sette poesie

Giuseppe Manitta su Crivu di Patrizia Sardisco

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Patrizia Sardisco, “Crivu”, opera vincitrice del premio “Città di Marineo”, Plumelia edizioni- Fondazioni culturali Gioacchino Arnone, 2016, euro 10,00.

 

“Crivu” è un bel titolo per una raccolta di poesia in dialetto siciliano, perché è quell’arnese che moltissimi siciliani posseggono, perché sta nella quotidianità di un passato in cui necessitava “passare” la farina (o altro) in casa. Ma il setaccio, se così possiamo indicarlo, è altro per la poesia di Patrizia Sardisco o meglio non è solo quello della casa dei nonni, usando un luogo comune. Ben poco dunque s’inserisce nell’esperienza tradizionale e popolareggiante cui spesso siamo abituati da versificatori, cosa che le fa onore e che già in prima analisi setaccia questa sua silloge dalle tantissime in dialetto. Ma il suo “crivello” è anche altro, è una immagine della lingua e della letteratura che si pulisce, che torna per lo meno all’essenziale, e che ha caratterizzato spesso l’approccio autoriale o qualche tendenza settoriale. È logico, oserei dire banale, il rimando alla Crusca, l’accademia (per l’appunto) della purezza, che separa la farina dalla crusca, oppure alla stagione giovanile di una rivista forse poco nota, con coinvolgimento di un Pasolini negli anni fascisti: “Il Setaccio”. L’idea è sempre quella: la separazione del buono dal cattivo, presupponendo nei confronti della lingua e dei temi di essa un atteggiamento ben specifico. Il filtro della Sardisco ritorna all’essenziale, la sua poesia possiede specifico nitore stilistico, curato, in alcuni casi con evidente scansione dei tempi alternati per strofa e per verso (si veda “comu si nninga u russu d’i primuna”), da cui scaturisce una attrazione formale. Questo se badiamo al dato stilistico, ma se sondiamo quello linguistico la situazione si fa più complessa, perché in fondo il dialetto ha un orizzonte sociolinguistico parlato, ma al contempo la parola che non si scrive rimane inespressa («parola c’un si scrivi / un è di nuddu»), creando una mediazione tra conservazione (reperimento) lessicale e segno (‘fattuazione’ del reperimento). Questi sono i dati evidenti di una escavazione personale che trova i cocci di luce, il bacile del sonno, l’attendere i numeri dispari, le radici che sono acqua ecc. Una poesia, dunque, altamente metaforica, anzi forse meglio dire sostanzialmente tale. Eppure è una poesia non sradicata dalla dialettalità (e casi in Italia ve ne sono stati, come quello del dimenticato Cesare Ruffato), e questo non solo attraverso il codice di espressione (siciliano). Le immissioni popolari sono rinvenibili, anche se alcune volte nascoste e variate: «a vuci rintra u saccu / scrusci sulu pi mmia // mancu agghiorna e mi spia / e accumincia a munnare / u cuteddu s’affuca // e cchiù munna e cchiù tinci / nìviru ‘un si nni va / m’arresta rintra l’ossa // s’annarbulìu accumpari / lingua c’u tutt’a scorcia» (la voce nel sacco / fa rumore per me soltanto // non appena albeggia mi rivolge domande / comincia a sbucciare / il coltello soffoca // e più sbuccia e più macchia / nero che non va via / mi resta nelle ossa // se vacillo compare / lingua con la buccia). Il detto popolare di riferimento è con buona certezza quello che si riferisce alla noce sola, che dentro il sacco non fa rumore. Ma la variazione in questo caso è con la lingua (voce) che fa rumore (solo per l’autrice, per lo meno in apparenza), ma che diventa sempre più “sustanziale” sino a macchiare, come le noci sbucciate a mano, cioè a far nero, e quindi ad intridere le ossa. Una voce che macchia le ossa: questa è la lingua di Patrizia Sardisco, questo è “Crivu”.

[Giuseppe Manitta]

 

giuseppe manitta

Giuseppe Manitta ha pubblicato due antologie sulla narrativa italiana per la casa editrice Mursia. Ha tenuto convegni in Università italiane e in diverse Università dell’Est dell’Europa. Ha pubblicato monografie e curatele su Boccaccio, sul petrarchismo del ‘500, su Leopardi e su Carducci. In particolare su Leopardi ha pubblicato due monografie: Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici (1998-2003) e Giacomo Leopardi. Percorsi critici e bibliografici (2004 – 2008). Con appendice 2009 – 2012. Di poesia ha pubblicato L’ultimo canto dell’upupa (2011, come premessa di Giorgio Barbieri Squarotti e introduzione di Carmine Chiodo) e Il giullare del tempo (2013, con prefazione di Francesco d’Episcopo). Collabora, inoltre, a varie riviste di italianistica tra le quali “La rassegna della Letteratura Italiana”. Dal 2016 cura la bibliografia leopardiana del Laboratorio Leopardi dell’Università La Sapienza di Roma.

(fonte nota biografica e foto: lapresenzadierato.com )

Giuseppe Manitta su Crivu di Patrizia Sardisco

Franca Alaimo legge Noemi De Lisi

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Franca Alaimo

La stanza vuota, di Noemi De Lisi Ladolfi editore.

La scrittura di Noemi De Lisi, avendo la densità spesso oscura della poesia e il ritmo narrativo della prosa, sembra presentarsi come un moderno esempio di prosimetro.
La stanza vuota, metafora per eccellenza dell’assenza e del silenzio, mette in scena pochi personaggi che raramente comunicano se non attraverso frasi smozzicate, preferendo il linguaggio del corpo, oppure, per esternare le emozioni più profonde, la scrittura epistolare, sebbene le lettere non sempre raggiungano il destinatario, e costituiscano, piuttosto, uno strumento di auto-indagine, o una sorta di messaggio affiorato dalle acque più profonde e inospitali del proprio io.
Tutti sembrano muoversi in uno spazio esterno pressoché disabitato e talvolta fatiscente; perfino la città è descritta come un corpus architettonico in rovina, quasi sempre sommersa nel buio, come a dire che la società contemporanea non offre alle giovani generazioni punti di riferimento e attenzione, né spazi e tempi di crescita autentica.
L’oggi, infatti, appare sempre vago, e più spesso, pur in presenza l’uno dell’altro, i personaggi (che potrebbero essere interpretati anche come proiezioni dell’io autorale) si ricordano.
La stanza vuota è comunque un libro molto amaro, ma affascinante per la forza visionaria delle immagini e dei pensieri del protagonista (che immagino sia l’alter ego maschile dell’autrice), la cui lingua dissociata riflette una personalità contratta, soffocata da oscure minacce, caratterizzata da una sensibilità morbosa, che, attraverso un processo di imitazione (imitare è un termine fra i più ricorrenti) tende a polverizzare in frammenti l’altro da sé, quasi per evitare la separazione (sia essa la morte, una partenza, un abbandono): “Poi strappavo una pagina vuota, mi alzavo e gliela passavo così sotto la porta, lei me la rimandava con una A scritta sopra, io scrivevo accanto una N e ricominciavamo, finché tra le mani non ebbi Anna e lei non ebbe più niente”. E sempre a proposito di Anna, il protagonista dice: “Anna, non sopportavo di vederti fuori da me. Anna, era per amore”.
Ancora più ambigua appare la terza parte, in cui il Noi sembra alludere ad una possibile realizzazione della relazione amorosa, nonostante il pudore del corpo e la gravezza di un impreciso senso di colpa. Tornano a essere presenti anche i personaggi già precedentemente scomparsi e, talvolta, si ha l’impressione di essere trascinati in una dimensione irreale, in cui morti e vivi coabitano intrecciando rapporti emozionali, sia pure evanescenti.
La scrittura della De Lisi ha, in ogni caso, molto a che fare con il linguaggio e le figure della psico-analisi: la casa stessa, le relazioni sospese tra odio-amore, protezione-aggressività, il forte simbolismo di cui sono connotati certi oggetti, come la forchetta d’argento impugnata dalla madre, che diventa simbolo dell’amore edipico; così come lo scambio fra il protagonista e la madre di lenzuola, posate e d’ogni altra cosa che allude ad una volontà di affondamento del proprio io in un archetipo rassicurante, e insieme ad un’impossibile confusione e fusione di più identità; la paura e l’attrazione per la morte, che inonda come un fiume in piena la versificazione: ne sono segnali sparsi il colore nero, il buio, la tomba, il timore della perdita, il sangue effuso fuori, le ripetute partenze, i nascondimenti, la presenza dei trapassati, il sentimento d’ingombro che spesso suscita il corpo.
Si resta così con la sensazione che La stanza vuota metta in campo un nodo psichico, irrisolto, a cui non si riesce a dare una risposta possibile di senso. Così, infatti, si conclude La stanza vuota della De Lisi: “Allungavamo una mano per afferrarle i capelli/ e la vedevamo cadere prima di averla sfiorata./ Smettila di fare il morto, mi stai facendo arrabbiare./ La sua ombra si muoveva sui nostri corpi fermi, rinchiusi/ ma l’affanno del respiro tradiva tutta quell’apparenza”
Per quanto riguarda la strutturazione del periodare, la sua frantumazione in lampi di visionarietà, come anche la presenza di tanto dolore di cui la strumentazione sonora si fa carico, il mio pensiero, se devo fare il nome di qualche narratrice contemporanea, va ad Herta Muller; ma suppongo anche che i riferimenti di Noemi siano molto diversi, per differenza d’età e di formazione, dai miei; che le sue preferenze vadano ai narratori statunitensi moderni, come Straadt, Faulkner citato in esergo, forse l’eclettico ed imprevedibile Toju Cole e a certa cinematografia coreana, caratterizzata da temi violenti, come stupri, incesti, privazioni, e perfino da risvolti orrifici.
Vi si potrebbero, dunque, rintracciare elementi di un maledettismo inteso più come categoria universale che come corrente letteraria storicizzata; o, addirittura, per la tragicità dei gesti, dell’espressione verbale e degli eventi e per la patologia dei sentimenti certi stilemi della tragedia greca.
Si individua anche, tra le righe, una relazione non indifferente fra la scrittura e l’autobiografia, una sorta di strumentazione della scrittura come nascondimento e affioramento di certi eventi e sentimenti personali, che assume il ritmo del respiro in un’alterna successione fra dilatazione e contrazione, fra sintesi poetica ed effusione prosastica, fra percezione della realtà e dimensione onirica.
Si tratta, comunque, di una scrittura nuova ed originale che colloca la giovanissima autrice fra i talenti nazionali più promettenti.

Franca Alaimo

 

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Franca Alaimo è nata a Palermo, dove vive. È autrice di una quindicina di libri di poesie, di numerose prefazioni e di diversi saggi critici. Con il romanzo breve L’uovo dell’incoronazione, Serarcangeli, ha esordito nella narrativa. La sua ultima pubblicazione, per i tipi di LietoColle, è Traslochi (2016).

 

(Articolo a cura di Patrizia Sardisco)

(foto: fonte web)

Franca Alaimo legge Noemi De Lisi

Franca Alaimo legge Maria Grazia Insinga

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Ophrys di Maria Grazia Insinga, Anterem ed., 2017

 

Volendo penetrare all’interno dell’enigmatica tessitura versificatoria, che costituisce il coerente e personalissimo stilema linguistico di Maria Grazia Insinga, a partire da La porta meta fisica (2013) fino all’ultima silloge Ophrys (2017), bisognerà che mi serva degli appigli (anch’essi abilmente camuffati) che l’autrice offre qua e là al lettore, a cominciare (paradossalmente) dall’Indice, la cui struttura rivela molto più di quanto non possa sembrare.
Basta infatti osservare attentamente con quale cura ed originalità grafica esso sia stato concepito e ‘disegnato’ per cavarne delle informazioni non di poco peso.
Esso, innanzitutto, obbedisce al ritmo del numero due (quanti sono i soggetti di questo teatro poetico), e del numero tre (quante sono le sezioni in cui si divide la silloge e le parti del corpo rappresentate: la testa, il torso, i piedi). Il numero 21 (20+ 1), ripetuto agli estremi del disegno simbolico di un corpo, ricorda, fra l’altro, la data di nascita dell’autrice e il 22 (2+2) dell’elenco dei testi inclusi nella sezione centrale, torso, il mese: aprile.
Nel suo insieme la composizione dell’Indice fa venire alla mente una specie di particolarissimo spartito musicale e di fatto, nello scorrere i titoli dei testi, sempre abbinati (in una sorta di canto e controcanto), se ne leggono alcuni che rimandano al lessico musicale, come “acuto”, “ottave” “salterio”, “regola” che rammentano l’altra passione artistica della Insinga che suona, come si legge nella sua biografia, in un duo pianistico ed è docente di Pianoforte.
Forse, corro un rischio troppo grosso nel vedere anche nel taglio delle teste delle ottave un richiamo ad un’immagine molto ricorrente nella silloge, ma è una suggestione troppo forte per tacerla; tanto quanto nel ricordare che l’insieme delle frequenze sonore udibili dall’orecchio umano si estende dai 20 Hz ai 20KHz, a cui, però l’Insinga aggiunge sempre un’unità come a dire che lei e l’altra eravamo più della somma, e che con la sua poesia desidera sforare la capacità d’intendimento del lettore.
Nel corpo della silloge i riferimenti al lessico musicale si moltiplicano aggiungendo suggestioni ed echi insoliti, ché, infatti, la poesia dell’Insinga procede secondo una successione di “fraseggi” armonici, anch’essi però difficili da intendere, essendo affidati a numerose omofonie e omonimie e paranomasie, come anche a una fitta rete di reiterazioni, che rivelano tutte un orecchio raffinatissimo e una competenza non comune della tecnica poetica.
Lo scoperchiamento del segreto così gelosamente serrato da queste rime richiede una lettura molto tenace ed un’attenzione profonda nei confronti delle connotazioni simboliche di segni e figure. Intanto il numero due, come già accennato inizialmente, rivela che i soggetti ‘messi in scena’ sono due giuditta e giuditta, l’una… l’altra, sebbene le due persone sono presentate/ senza distinzione se io non esiste e tu.
Cosa viene rappresentato, dunque? Una moltiplicazione dell’identità? Un palinsesto identitario sopra un altro palinsesto identitario? La risposta contiene in sé un potente ossimoro: uno smarrimento reciproco della razionalità (la testa), del controllo emozionale (il torso, sede del cuore), della direzione corretta, dell’equilibrio, dell’atto stesso di stare nel mondo (i piedi), incastonato tuttavia in un testo perfettamente pensato ed organizzato in tutte le sue parti e quindi parzialmente affondato, per autodifesa, all’interno di un rapporto quasi matematico di numeri e corrispondenze ritmiche.
Lo smarrimento della razionalità (la perdita, come si dice, della testa) è rappresentato dall’atto reiterato della decapitazione: all’esecuzione non potevi andare in due/ l’una non vedeva l’altra/ la testa cadeva una, poi l’altra; dalla presenza, più volte ripresa, di un boia e di un omino impiccato e dall’identico nome-schermo, Giuditta, che rimanda all’episodio biblico della decapitazione di Oloferne per mano dell’intrepida donna ebrea.
All’interno dei testi s’impone all’attenzione l’insistenza sul fiore della rosa insieme ad altri termini attinenti allo stesso campo semantico. Ora, alle rosacee appartiene pure il fiore del pesco: sottolinearlo non è cosa peregrina, perché tutto ciò toglie un altro velo all’enigma della destinataria di questa silloge che è, dunque, la stessa della precedente titolata Persica: l’autrice se lo lascia sfuggire, forse senza volerlo, quando a piè del testo Echinadi (p. 41) scrive in corpo minutissimo, appena leggibile: lei sta per mangiare la pesca.
La rosa, inoltre, è certamente una figura letteraria, divenuta ormai topica, dell’amore anche celeste; e, di fatto, nei testi della silloge non mancano elementi di sacralizzazione alludenti alla pura scaturigine del sentimento; sebbene prevalga, sensuale, tormentosa e fulgida, la fiamma della passione che trova la sua immagine floreale nell’ophrys che dà titolo alla silloge. Il pensiero va a Proust in cui l’eros è rappresentato da una cattleja.
La perdita della razionalità è, d’altra parte, dichiarata chiaramente dalla poeta: ho perso il filo di me che ho perso/ qui e altrove logica e sovvertimento (I filo, p.47); questo senso di affondamento dell’io (del noi) è metaforizzato anche dalla presenza di spazi ormai inesistenti, come la terra di Tirrenide o l’isoletta Ferdinandea; ed è sufficiente scorrere i titoli di certi testi, come Apnea, Sisma, Sproloqui, Schianti, Tagli, per cogliere, in tutta la loro incandescenza, il dolore, lo smarrimento, la profondità della ferita, i turbamenti.
La parola ha un bel da fare nel cercare di contenere, cingere, fare da muro e scudo. Mi ha profondamente colpito quanto mi ha detto la Insinga, durante il nostro ultimo incontro a Capo d’Orlando, a proposito della funzione della sua poesia: “Dire tutto, proprio tutto, senza che il lettore possa dire di avere capito”. Mi scuso, dunque, se mi autocito (lo so, non è elegante), ma vorrei dedicare all’autrice di Ophrys questa mia sestina che sembra riassumerne la poetica: Se la parola spalanca la tua porta/ mentre obliosa tu vivi senza scorta,/ guarda che il suo assedio non sia morte. / E dunque non lasciarti a cuore nudo: / con rime e metri forgiati uno scudo/ adatto a dominar suo sguardo crudo.
Ma quanto la poeta è riuscita a nascondere? Di fatto, se le sue parole poetiche tentano di fare velo, non così hanno operato, nella vita reale, i giudizi degli altri. Ci sono dei versi terribili (uno dei quali ripetuto) che ci avvertono del disagio etico, dell’isolamento di chi trasgredisce la cosiddetta normalità: e le teste mozze schiaffeggiate/ dal boia senza dignità; in balia di una cosa sola di due uscita dalla bocca/ a mostrificare fornicare l’impotenza del sesto precetto; una civile decapitazione esangue o la fogna civile del dire.
E però niente, nemmeno la severa architettura di questa silloge, argina, di fatto, il tumulto amoroso: bocche, polso lunulato, raffiche di ciglia, voci, capelli, vertebre sgorgano da questi versi, avanzano nella loro grazia scabra, in una visione di purezza, ché dicono il vero i versi di Jacqueline Risset, citati a conclusione del suo ultimo testo: “amour absolu de tout objet/ qui meurt”.

Franca Alaimo

 

Maria Grazia Insinga_OPHRYS                           maria grazia insinga

 

La raccolta Ophrys è stata finalista alla XXX edizione del Premio Lorenzo Montano. È possibile leggerne alcuni estratti qui

 

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Franca Alaimo è nata a Palermo,  dove vive. È autrice di una quindicina di libri di poesie, di numerose prefazioni e di diversi saggi critici. Con il romanzo breve L’uovo dell’incoronazione, Serarcangeli, ha esordito nella narrativa. La sua ultima pubblicazione, per i tipi di LietoColle, è Traslochi (2016).

 

(Articolo a cura di Patrizia Sardisco)

(foto: fonte web)

 

Franca Alaimo legge Maria Grazia Insinga

Un Posto, di Sabato: Passi scelti da ”Il colpo di coda – Amelia Rosselli e la poetica del lutto”

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‘’[…] dalle parti della Cina, patria di un pensiero del divenire (anziché dell’essere) in cui, incredibilmente per noi, è la parola poetica a definire il modello di quella politica. Non il progetto, la razionalità, la volontà del soggetto sono i valori da ricercare, bensì il flusso, il trovare la vena nel tagliare la giada, la disponibilità. Il calligrafo espressivo cinese, quello che arriva al kuang cao, la scrittura delle erbe […] non deve progettare, anzi deve evitare di farlo; deve fare il vuoto in sé, trovare il neutro, l’insapore, il nulla, il punto che possiede tutte le potenzialità, e solo da lì partire. In questo modo esprimerà non un se stesso, di cui alla cultura cinese importa ben poco, ma un fluire armonioso con le cose; oppure, se vogliamo, un divenire in relazione.

È questo medesimo divenire in relazione che mi pare caratterizzante il contenuto della scatola di Amelia Rosselli. Per quanto frequentemente nominato, l’io non sembra avere una funzione organizzatrice delle cose del mondo, nelle sequenze di queste poesie. Ha piuttosto l’aria di essere qualcosa che fluisce insieme con altre cose che fluiscono: il sospetto di un’identità personale che non arriva ad attualizzarsi se non per sprazzi momentanei – perché l’io non può mai essere sospeso del tutto. […] È qualcosa che può ricordare un flusso di coscienza, però ben diverso da quello joyciano: troppo simile a un flusso musicale, fatto di riprese e di sviluppi, di da capo e di spostamenti di accenti. Un flusso narrativo sarebbe di nuovo un’espressione dell’io, con la sua coerenza e la sua visione del mondo. Un flusso musicale non esprime invece di per sé alcuna concezione del mondo, nessun punto di vista singolare: è lì semmai che il divenire in relazione trova una modalità di espressione privilegiata.’’

 

(Daniele Barbieri, da ‘’L’improvviso di Amelia Rosselli’’, pp.13-14)

 

 

 

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‘’[…] per Amelia Rosselli il linguaggio costituisce un universo a pieno titolo […]: nella sua poesia le parole hanno una carne e una sostanza ma, soprattutto, hanno suono:

 

’una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho mai in realtà scisso le due discipline, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema […]. La lingua in cui scrivo di volta in volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica associativa è certamente quella di molti popoli, e riflettibile in molte lingue.’’*

 

*(Amelia Rosselli) da Spazi Metrici

 

[…]

 

L’alba a rintocchi cade

sulla mia testa ammalata

il difficile umore m’assale

verde come la paura *

 

La sua poesia viene da lontano, bellicosa e bellissima dove ‘’I vostri inverni non bruciano di quel inchiostro che io tengo in mano’’, dagli anni della formazione, epifania di un nomadismo come disposizione esistenziale del poeticum che non si lascia mai catturare dai lacci dell’immediato e del visionario ma che pone in discussione la superficie trasparente della sillaba, della pagina, inaugurando una modalità sistematica di relazione tra significante e significato, nella quale presenza e differimento […] possiedono lo stesso valore veritativo, mescolandosi in una danza che pone l’una come riflesso necessario dell’altro […].

Ma è soprattutto sull’autonomia inventiva della parola che poggia il linguaggio esclusivo della sua poesia. ‘’

 

*Amelia Rosselli

 

 

(Antonella Pierangeli, da ‘’Amelia Rosselli, partitura per voce sola e livide disillusioni’’, pp.61-62-63)

 

 

 

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‘’Come ci si estromette dal fare-vita?

Molto semplicemente mettendo al lavoro il lutto. Non si tratta necessariamente di morire, ma di praticare pedissequamente e quotidianamente la poetica del lutto, ovvero di morire poco per volta, ogni giorno e in ogni testo. Per questo è necessario almeno un addio, per questo bisogna declinare un intero sistema di addii. Si potrebbe dire che il sistema degli addii e la tenuta del ritmo siano gli elementi fondanti della roccaforte rosselliana. Una roccaforte che si potrebbe definire come una struttura ingabbiata.

[…]

Se la gabbia (e non mi riferisco solo a quella metrica) è un contenitore diventa necessario parlare di struttura quantificandone almeno altezza, larghezza e profondità. Se l’altezza è il dispositivo che dona intensità alla ripetizione divenendo sintomo di persuasione, se la larghezza è quel meccanismo che contrae e insieme dilata gli elementi della gabbia ove si consolida e si consuma l’atto stesso dello scrivere, se la profondità è spessore e consistenza nelle pieghe delle quali la Rosselli precipita, allora la struttura complessiva diviene inevitabilmente sapida e insieme sadica. C’è qui un farsi faccia-di-sé mentre ci si costruisce come interfaccia verso l’altro. Quell’altro che, nella sua altera terribilità, può rinvenire in superficie solo come proiezione della sua immagine, un’immagine parlante e scrivente.’’

 

 

(Enzo Campi, da ‘’Epico, sapido, sadico: per un (auto)ritratto di Amelia Rosselli’’, pp.87-88)

 

 

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Amelia Rosselli, foto di Dino Ignani

 

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Tutti i passi proposti sono qui riportati per gentile concessione di Enzo Campi, che desideriamo ringraziare; ciascun contributo è tratto dall’antologia

 

IL COLPO DI CODA

AMELIA ROSSELLI E LA POETICA DEL LUTTO

 

A cura di Enzo Campi

 

Marco Saya Edizioni 2016

 

 

 

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Le immagini sono tratte da: boinlettere.wordpress.com

 

(Articolo a cura di Alba Gnazi)

 

 

 

Un Posto, di Sabato: Passi scelti da ”Il colpo di coda – Amelia Rosselli e la poetica del lutto”