Presentiamo di seguito una lettura di Franca Alaimo di Voci dal canto generale di Marco Armando Ribani insieme a una selezione di testi.
Dolore, gioia, perdita e rifioritura. Questi sono i suoni interiori dell’universo poetico di Marco Armando Ribani, traboccante di immagini e di musicalità e di cromie, vicinissimo alle radici della Sapienza, capace com’è di trasfigurare anche la realtà più sconciata con la luce dell’amore.
Nello scontro ed incontro fra ombra e luce consiste, infatti, l’elemento inconfondibile di questo autore, che parla al lettore con un linguaggio intenso e profondo sebbene così limpido.
Anche il tempo, quello della storia dell’umanità, quello delle storie dei singoli e delle creature tutte (che attraversa i testi, a partire dai ritratti di tanti vecchi raccontati nella prima sezione, a quello dell’ultima, che mette in scena l’eterno ciclo delle stagioni) viene ricondotto ad una sorta di carità infinita in cui vita e morte si abbracciano, ad una necessità di trasformazione dalla dimensione della materia transeunte all’altra eterna dello spirito, dalla sparizione dallo spazio concreto alla resurrezione in quello verbale del poeta.
Scriveva, infatti, Rilke che i poeti sono coloro che “dicono sì alla sparizione e per i quali la sparizione può essere pronunciata” divenendo “parola e canto”.
Lo scontro fra dolore e gioia, fra vita e morte è spesso introdotto lessicalmente dalle congiunzioni “eppure”, “ma”, oppure è affidato alle domande (i testi sono spesso affollati di punti interrogativi), o a iterazioni struggenti e suggestive; e, cosa ancora più significativa, sembra che tutto il creato partecipi a questa sospensione fra spavento e stupore. La Natura tutta diventa in questa poesia un luogo di rivelazione, in cui elementi terrestri e celesti assumono un valore epifanico.
Il gruppo bellissimo di testi dedicati alla luna, consacrata dalla migliore tradizione poetica, potrebbe rimandarci alla luna del Leopardi – simile è la suggestione ed il respiro immenso della notte; e il tono, come nelle poesie del recanatese, è alto e sublime, e lo sgomento contemplativo ci afferra allo stesso modo – e però Ribani, a differenza di quello, dà, infine, parola alla luna che esorta gli uomini a vivere la propria vita e a trasformarla in canto, quello che “aprirà una larga e fertile ferita/ nello splendore della miseria”.
Ora basta leggere questi due versi, per rendersi conto di un’altra caratteristica del linguaggio dell’autore: la ricorrenza di sintagmi o espressioni di natura ossimorica, che stringono in un unico elemento verbale gli opposti, i quali, partecipando l’uno della natura dell’altro, si fondono in una sintesi che li supera.
Tutto ciò dà ai versi un’intensità drammatica, nel senso che sembra mettere in scena una serie di personaggi (uomini e creature degli altri regni) che rappresentano un concerto di voci (Voci del canto generale è, appunto, il titolo della silloge) dialoganti, portatrici di emozioni, di archetipi e metafore del profondo. Il sentimento da cui nasce ogni voce è quello di una minaccia continua alla vita, alla bellezza, all’ordine, ma dal loro insieme, dal dialogo senza sosta si alza, infine, un inno di fede e l’esortazione a pacificarsi con l’esistenza.
Leggere queste poesie, allora, è come, oscillare fra scoramento nichilistico e misticismo, fra immanenza e trascendenza, senza per forza voler dare a questi termini un valore strettamente religioso.
In fin dei conti, la poesia è un’espressione squisitamente mistica, se è vero che nel suo grembo si fondono visibile e invisibile, effimero e assoluto; se è vero che la parola poetica è di per sé un rito, una liturgia.
Palermo, 22 Novembre 2017
Testi
I
Veniva poi la neve
e noi con la pelle aperta delle mani
oscillavamo tra colpa e gioia
prima di portarla alla bocca
ed in quel freddo che ti schiantava i denti
c’era come un risarcimento naturale
di tutti i gelati mancanti dell’estate
Ma nelle case degli edili
di neve non si poteva essere contenti
perché era colpa sua se si chiudevano i cantieri
e per l’umore degli adulti era come un lampo
colmare la distanza di pensiero neve-uguale-fame
Allora ci andavamo di nascosto
noi bambini a ridere e rimpinzarci
di neve anche le tasche e le mutande
e con le code d’occhio maliziose godevano
degli sguardi invidiosi dietro i vetri
dei figli delle case senza fame.
II
Ti amo comunque mi diceva lei
Non è abbastanza mi dicevo io
Partivo. Per ansia di meraviglie. Per tornare diverso.
Ma le Penelopi implacabili:
Sei tu. Sei sempre tu. Ti riconosco.
Nelle parole dell’abbraccio una rabbia e un fallimento
Che hai viaggiato a fare
Se torni con un carico di nulla. Ancora una volta nudo alla meta.
Sei sempre tu.
Tre parole acuminate a ruminare dentro il sangue
E in cima a tutto Lei.
La vecchia
Vecchia Penelope con dita rattrappite di memoria
sfinita non d’attesa
ma da un inseguimento di pensiero intorno al mondo.
Sei tu. Sei sempre tu.
L’amore è una forma di condanna,
No mamma. Non sono io. Non sono mai stato io.
Costretto nel ritorno ad ammainare gli stendardi.
A nascondere i bauli ed i cammelli,
Chincaglierie. Piatti. Cianfrusaglie.
Il tutto camuffato di tesoro.
Tutta una carovana insacchettata.
I cavalli. I ciuchi sardi. La R4 rossa.
Il comunismo estremo. I tarocchi. Un po’ di Budda grattugiato.
Tutto schiantato.
Sei tu. Sei sempre tu.
III
Mia madre nascose al suo interno la mia immagine
e non la partorì. Partorì la carne, ma si tenne il mistero.
In vita mi trattò sovente come uno sconosciuto.
Spesso vedendomi mi cacciava tra le mani una moneta.
Mi chiamava Luciano.
Oppure con fervore improvviso mi prendeva le mani
“Vuoi conoscere Luciano?” No mamma, non m’importa
Va bene così.
Chi crede che io sia mi domandavo. A volte all’improvviso
cercava di baciarmi sulla bocca. E io spingendola via
Mi domandavo chi ero. Cosa vedeva quando mi guardava
Così a lungo che sentivo il calore dei suoi occhi sul mio culo.
Così fu il dubbio che prese il sopravvento.
Chi ero io se persino mia madre non mi riconosceva.
Non c’è peggior condanna per un impostore
di quella di dimenticare di chi si è preso il posto.
Così in questa vita che pure è stata mia
ho recitato sempre ruoli secondari perché
il protagonista sconosciuto era sempre altrove.
Adesso sono stanco ma non oso morire
Un poco per paura di come sarò da morto
ancora un impostore e quindi vivo? Oppure
sarà lui a prendere il mio posto beffandomi
perché non lo vedrò mai?
IV
Conosci l’opera traboccante della gioia?
I vini gustati insieme a coloro che entrarono
festosamente nella vigna e tra loro quelli che
elevarono i nostri sensi fino alle vette
alcuni hanno nutrito le nostre visioni del mistero e della bellezza
e ci hanno per mano condotto sulla proficua strada dell’impossibile
Persino questo lutto è la nostra felicità e quindi bacio
le tue mille scintille
e ci vedo il tuo volto perché tu sei la parola scintilla.
V
Luna piena
La luna questa notte è un enorme occhio aperto
per vigilare sul passaggio degli umani.
La tenebra è un manto di cobalto che nasconde
la misera ricchezza delle cose.
La guarda un ragazzo che questa notte fugge.
Lascia la casa. Esce. Tracima. Con l’entusiasmo del torrente
lascia la casa
Calpesta. Sprofonda. Emerge.
Nel fianco instabile della montagna intrisa
Calpesta, Sprofonda. Emerge
Si ferma guarda il fluire di paesaggi e nubi di acque e fuochi
e poi all’improvviso li vede fuggire
nubi di acque e fuochi
laggiù nella valle un fluido denso e vivo di legno carne ed escrementi.
Sale l’odore di marcio del giorno.
Legno e carne ed escrementi
Salgono le voci di esseri viventi immersi in una fertilissima miseria.
Gomitoli di unico filo,
Immersi in una fertilissima miseria
Sale un odore acre di uomini sconfitti e taciturni.
Eppure il filo dell’esistenza ki fa sembrare perle
uomini sconfitti e taciturni
Il ragazzo sente la povertà del sogno che porta nelle tasche.
Sente che deve formulare una grande domanda
la povertà del sogno
Si ferma e con gli occhi innocenti rivolge una domanda muta alla luna
con gli occhi innocenti
Ma non accade nulla. Solo la luce inesorabile del giorno
comincia a cancellare la notte
Ma non accade nulla
Il ragazzo teme che la luna non gli indicherà alcunché
nel buio sprofondo della notte
nel buio sprofondo
allora vattene dice offeso alla luna, ma lei finalmente risponde
finalmente risponde
Aspetta aspetta figlio mio. Dice la luna –
Prendi questa vita questa. Che è tua.
Prendi questa vita questa.
Cerca il luogo dove le madri nutrono i figli con il latte delle stelle
con il latte delle stelle
giunge il sole. Mettiti in cammino e canta. Che sia un canto
Che sia un canto
che chiama la terra che chiama la madre
che chiama noi fratelli che chiama il fuoco che chiamo il fiato
che chiama la terra la madre i fratelli il fuoco il fiato
Non sa che quel canto aprirà una larga e fertile ferita
nello splendore della miseria
Non sa
VI
Chi chiama oltre la porta?
− La voce che rimane −
Viene per dirmi che è venuto il tempo
di entrare dentro le visioni
La voce chiama un’altra vita
per fare insieme la traversata della notte
Qualche dura stella già indora i cieli
e con i fili di un ragno assetato
lega tutti gli elementi del mondo
È il tempo che bussa alla mia porta?
Quanti anni possiedi?
mi chiede
Ho gli anni delle parole che sono state dette
e che ai soli si sono riscaldate
Ho gli anni dei vivi e dei morti che sono passati di qui
e sono in pace in solitudine sperduti
VII
Ho colpa se mi abbandono a questi momenti di pace?
In quanti ritagli marginali di città ci sono anime
e corpi abbandonati sotto il cielo
e tu possiedi una viva e preziosa solitudine
Ah! come è dolce navigare in questo cielo in questa sera
dove nei voli non c’è paura alcuna
poiché si ha diritto d’approdare nelle arie calme
quando si migra verso un altro tempo in cui non siamo esclusi
in cui esistiamo con la dolcezza e il sapore di sentirsi vivi
Marco Armando Ribani è nato a Bologna nel 1943. Operaio, sindacalista, oste, animatore culturale, poeta, ha frequentato la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e come docente ha condotto diversi laboratori di scrittura autobiografica. Ha iniziato a scrivere poesie a 50 anni frequentando un corso dell’Università Primo Levi di Bologna.
Ha vinto il Premio Navile nel 1996. Ha creato e diretto la Piccola Editrice La Volpe e L’Uva e ha pubblicato diverse raccolte oltre le proprie Sotto i cedri del Libano e Sentieri. Per anni è stato organizzatore di serate di poesia nella sua Osteria del Montesino, in via del Pratello a Bologna. Attualmente vive in Francia, ospite della medium e scrittrice Patricia Darré, come poeta residente.
Franca Alaimo è nata a Palermo, dove vive. È autrice di una quindicina di libri di poesie, di numerose prefazioni e di diversi saggi critici. Con il romanzo breve L’uovo dell’incoronazione, Serarcangeli, ha esordito nella narrativa. La sua ultima pubblicazione, per i tipi di LietoColle, è Traslochi (2016).
(articolo a cura di Patrizia Sardisco)
(foto: fonte web)