Lost in: Violeta Savu – Poesie

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Violeta Savu

Una noce

Ho condiviso una noce con Nora.
Aveva il sapore di una torta
al cioccolato inumidita con spezie
come alla Vigilia di Natale.

C’era anche l’odore della mamma
nella sferica drupa. Dopo
aver sbucciato il nocciolo ho
guardato nella corteccia legnosa.
Forse si scorgeva un’icona.

– Da dove hai preso questa noce?
– L’ho trovata
oggi
alla mamma
vicino alla croce.

Non c’è un albero
di noce
in tutto
il cimitero.

*

 

Adamo ed Eva - Tamara de Lempicka
Adamo ed Eva (part.), Tamara de Lempicka*

 

 

Sono come Sonia!

Lui stava salendo la scala
io stavo seguendo la sua ombra.
Non mi ama perché non soffondo
bellezza. Sono insulsa e nerastra.

Mi saluta dopo aver fatto l’amore.
Sto tirando i miei vestiti con pigri movimenti.
Niente su di noi, qualcosa degli altri.

Si ritira, parla con l’altra
al telefono. Non mi muovo. Prolungo il momento
tra l’ispirazione e l’espirazione. Dietro di me
lui risponde: „tantissimo”. Intuisco
la domanda della donna: „mi ami?”
„tantissimo”

„mi ami?!”

(Dal volume Da lontano lui mi vide bella)

*

 

Caro suicidio, non ti amo!

Caro suicidio, non tormenti i miei sogni. Ma, posso dire di avere una buona rimembranza di te. Ricordo come ho cercato di incontrarti nel mio primo anno di college. Sono stata bocciata all’ esame nella mia prima sessione, ho litigato con i miei e tornavo da un rendez-vous. Avevo scoperto che il ragazzo di cui ero innamorata amava follemente un’altra… E sappi, caro suicidio, ho provato, ma non sono riuscita ad essere tua amica!

Caro suicidio, non ti amo! E ti ho sconfitto
con una lunga gonna rossa
presa in prestito da una amica. Come potevo gettarmi
nel vuoto se non
indossavo i miei vestiti? La gonna era
fatta di materiale di alta qualità.
Senza alcuna piega, le sue pliche sembravano
onde di un mare in cui
è scesa la lava di un vulcano. Ricordo come ti ho detto.
Caro suicidio,
ti sto rinviando! Ho un incontro estremamente importante.
Devo restituire la gonna rossa
in cui ero vestita quando mi hanno preso
alcuni pensieri simili
con quelli di Esenin Hemingway Maiakovski Heym.
Anch’io avevo un „buco
nel soffitto”, ma come potrei averlo pensato fino in fondo,
come questi uomini,
se stavo indossando una gonna lunga lunga per terra?!
E, da sotto cupola della campana
di vetro uscirono le code di stoffa bruciata, la frangia di Sylvia.
Eppure, caro
suicidio, te lo giuro, ho una buona rimembranza di te.
Ho preso in prestito la gonna
rossa per essere elegante. Per essere bella. Pensando
all’amore. Lui non mi amava.
Mi sentivo brutta e sola. Ho camminato stonata
per le strade e sono entrata accidentalmente
nella scala di un grattacielo. Ho chiamato l’ascensore, una bara
scorrevole, rialzata in piedi. Ho
premuto il tasto 11. Raggiunsi un tetto dove
potevo guardare il panorama
della città. E, caro suicidio, sai cosa ho fatto?
Alzai l’orlo della gonna al cielo,
mi immaginavo che sono croco autunnale girando,
girando. Suicidio,
la tua bellezza inebriante come fiore brina. Fiore
dei morti. Ho visto
davanti agli occhi persone radunate accanto al mio corpo
inanimato. L’errata
identificazione. La mia amica. I genitori. I suoi fratelli e sorelle,
il fidanzato, tutti spaven
tati. All’improvviso ho capito, la sofferenza dei suoi cari
non potrei coprirlo con
la morbidezza delle macchie di sangue stampate sulla gonna
data in prestito. Caro suicidio,
non ti adoro, non ti ammiro, non ti amo! La tua forza
può essere indebolita da
una farfalla di stoffa rossa. Così vaporosa e lunga,
la gonna rossa
ha congiunto il cielo alla terra! Caro suicidio, io no,
non ti amo!

(Dal volume Frange)

*

savu 3
Violeta Savu

Il lamento di Eva

Promettimi
che guarirai la mia cicatrice
che ogni donna nasconde
non per pudore
ma per l’abisso della solitudine

 

*

 

 

Notturno

inginocchiavo nel corpo dell’uomo
come in un tempio pagano
e lui premeva il mio cuore
in una reminiscenza aliena

non ricordo altro che
le belle bugie,
un velluto che avvolgeva
il bacio triviale, il tremore
della tenda prima della scena

un’immagine allungata di un dio
spavaldo lui mi condanna la delicatezza

 

*

 

 

Separazione

con rammarico di ninfa scelta
sarò il tuo ultimo miraggio
una viola traballante
sulle acque di terraferma

 

***

 

savu 2

Notizie biobibliografiche

Violeta Savu (21 febbraio 1973, Bacău), laureata in matematica; è poeta e performer. Membro dell’Unione degli Scrittori dalla Romania; editore della rivista “Ateneu”. Ha pubblicato quattro volumi di poesie: “Rifugi in lirica” (Pallas, 2004), „Atocmiri” (Studion, 2006), “Da lontano lui mi vide bella” (Tracus Arte, 2011) e „Frange” (Tracus Arte, 2016). Nel 2016, al Festival Internazionale di Dramma “Valentin Silvestru”, nella sezione Drammaturgia, vince il Terzo Premio, con lo spettacolo “Clara e Robert. Carta sullo spartito “.  Ha pubblicato poesie e articoli letterari in numerose riviste del paese (“Vitraliu”, “Vatra”, “Famiglia”, “Ex Ponto”, “Poem caffe”, “Poesis international”). Per la rivista Poem caffe ha collaborato anche con delle rassegne cinematografiche. In Poesis International è stato pubblicato un aggruppamento delle sue poesie in inglese, tradotto da Elena Ciobanu. Ha in preparazione un volume drammaturgico che conterrà quattro pezzi di teatro con il titolo “Five Tattoos”.

 *

La traduzione delle poesie qui proposte è opera di Daniela Mărculeţ.

*Fonte immagine T. de Lempicka: web

Photo credits: Mia Nazarie, via Daniela Mărculeţ. 

 

Articolo a cura di Alba Gnazi

Lost in: Violeta Savu – Poesie

KOMMOS. Processione per isterectomia di Iuliana Lungu nella traduzione di Daniela Mărculeţ

lungu coprtina

 

de profundis

vediamo,
a cosa ti serve l’utero,

Donna?

(no, non è un esame
sul mio corpo,

l’anatomia della donna  È
metafisica)

cos’è la donna
senza organi genitali

cos’è?
Donna

senza utero non È?
luogo di mandato  trans-

generazionale
non è più

cos’è la donna
senza organi genitali,

posto per l’Uomo
no lo È?

ricevi vita in
prestito,
a cosa ti serve?

dimmi, donna!
a cosa ti serve l’utero?

dimmi, donna!
a cosa ti serve il sangue?

dimmi, donna!
non si tratta solo di procreazione?

NON È,

Il mandato è più una decifrazione.

*

nonimmacolato silenzio

 

dolcemente mi ha preso per mano,
con un tenero bacio
mi ha sussurrato:

vai piano,
qui si indossa il bianco.

nessun mortale può mantenere un segreto,

mi ha citato su Freud,
il senso del silenzio degli oggetti,
mentre svestiva un ecografo:

ti racconterò una storia,
qui si indossa il bianco.
se la sua bocca è sigillata, le dita parleranno.

 

mi ha detto di guardare
lo schermo
la risposta da parte tua:

non aver paura
qui scrive bianco su bianco:

il tradimento respira attraverso ogni poro.

*

nitrogenia  

 

nel blocco
operatore
la pittura del corpo
è in esecuzione

con betadine
al freddo.
Il medico
mi dice:

RilassaTi!
ripeti la formula
chimica,
per conforto

ripeta
dopo di me
donna,
(C6H9NO)n·xI:

ci sei
hacca
nove

a r i a   b r u c i a t a

 

(abbastanza inerte,
Lavoisier
lo ha chiamato
azoto,

senza vita.
i suoi composti erano
conosciuti
nel Medioevo.

 

Gli alchimisti
l’hanno chiamato
aqua fortis.
miscelavano

miscelavano
tutto
per
aqua regia.

per
aqua regia,
la dissoluzione
dell’oro)

Il Medico:

lascia la storia,
donna,
continua con
la formula chimica,

ripeta
solo
dopo
di me!

Donna:

ossigeno)ooo
xl
sette
volte

Il Medico:

schiena piegata,
mento in petto,
le braccia
insieme.

Il Coro:

come per la preghiera
come per la preghiera

metterli
tra le cosce,
morbido
come un panno.

L’Eco:

morbido come un panno
come un panno
un panno
panno

donna,diversamente

 

l’ago
non arriva
dove
occorre.

non sta tesa
il dipinto sulla schiena
viene indossato
con colori caldi

L’Eco:

con colori caldi
colori caldi
caldi.

Corifea:

avete dei figli?
È la migliore
cosa!

L’Uomo:

lo standard di vita
è dato da
tonnellate di

Il Coro:

acciaio sull’uomo
acciaio sull’uomo

La Folla:

quando ci rimprovererà
questa terra
torneremo
qui

Il Coro:

da un ospedale all’altro
da un ospedale all’altro
te lo dico
mia dolce
bambina,

ogni abbraccio
potrebbe essere l’ultimo

Il Coro:
senza betadine
senza betadine.

*

anesthesia
 

io vi addormento io vi sveglio
non definite voi cosa sia la morte.

noi non

stabiliamo la logica
la convenzione con

la vita
scorre.
io non
posso fermare
la dispersione
del sangue.

il momento in cui
so che non
è possibile
che l’uomo
torni indietro
intero.

io non.

il tunnel arancione
qualsiasi incontro con te.

Shakespeare,
nella sua genialità,
si domandava:

sono morte le persone
quando i loro capelli e le unghie
stanno crescendo
nelle loro tombe?

Einstein avrebbe detto:
Quando arriva
la stazione Clapham Junction
a questo treno?
i capelli e le unghie rimangono
invariati,
la pelle si ritrae
attorno a loro,
sarebbe l’ultima verità

riguardo
noi non.

ma i miei capelli
continuano a crescere.
la distanza tra

noi non.

possiamo tenere la coscienza
quando la nuvola  sta ghiacciando
il battito d’ali.

nu(b)i  mossi di
proteine,
questa energia.

iberniamo temporaneamente
alla caccia d’ali.

 

 

Testi tratti da ”KOMMOS. Processione per isterectomia” (originale: ”KOMMOS. Procesiune pentru histerectomie”), edito da FRACTALIA, di Iuliana Lungu 

 

lungu

Iuliana Lungu è psicoterapeuta dell’orientamento psicoanalitico. Ha pubblicato e tradotto saggi e articoli sulla psicoanalisi. Nel 2016 ha pubblicato per la prima volta poesie sul sito Qpoem, sulla rivista Familia, la rivista Vatra e Bottega Culturale (Prăvălia Culturală). Quest’anno, guidata dalla poetessa Medea Iancu in una residenza letteraria organizzata dalla casa editrice Cartea Românească, ha preparato il suo primo volume di poesie KOMMOS. Processione per isterectomia.

“Iuliana Lungu scrive sull’identità, sulla femminilità e l’accettazione / ridistribuzione del genere; le sue poesie sono un rituale di purificazione e libertà da pregiudizi, modelli, un rituale speciale che riguarda il sé e la verità. Le sue poesie parlano degli schemi che ci impongono la società, della vergogna, della colpa, della censura, ma soprattutto della colpa e della vergogna di essere una donna. ” Medeea Iancu

*

La traduzione proposta in questa sede è di Daniela Mărculeţ, che ha già curato per Un Posto di vacanza una trasposizione poetica dalla lingua romena, come è possibile leggere qui.  

Immagini inviate dalla Traduttrice.

Articolo a cura di Alba Gnazi

KOMMOS. Processione per isterectomia di Iuliana Lungu nella traduzione di Daniela Mărculeţ

VITTORIO SERENI, UN POSTO DI VACANZA – I

Sereni
Vittorio Sereni al lavoro a Bocca di Magra, 1979 (fonte: web)

I

 

Un giorno a più livelli, d’alta marea

– o nella sola sfera del celeste.

Un giorno concavo che è prima di esistere

sul rovescio dell’estate la chiave dell’estate.

Di sole spoglie estive ma trionfali.

Così scompaiono giorno e chiave

nel fiotto come di fosforo

della cosa che sprofonda in mare.

 

Mai la pagina bianca o meno per sé sola invoglia

tanto meno qui tra fiume e mare.

Nel punto, per l’esattezza, dove un fiume entra nel mare

Venivano spifferi in carta dall’altra riva:

Sereni esile mito

filo di fedeltà non sempre giovinezza è verità

…….

Strappalo quel foglio bianco che tieni in mano.

Fogli o carte non c’erano da giocare, era vero. A mani vuote

senza messaggio di risposta tornava dall’altra parte il traghettatore.

 

Un fiume negro – aveva promesso l’amico –

un bel fiume negro d’America

Questo era il dato invogliante. Opulento a fine corsa

pachidermico

in certe ore di calma.

Era in principio solo canne

polverose e, dalla foce, mare da carboniere…

Chissà che di lì traguardando non si allacci nome a cosa

… (la poesia sul posto di vacanza).

Invece torna a tentarmi in tanti anni quella voce

(era un disco) di là, dall’altra riva. Nelle sere di polvere e sete

quasi la si toccava, gola offerta alla ferita d’amore

sulle acque. Non scriverò questa storia.

 

Al buio tra canneti e foglie dell’altra riva

facevano discorsi: sulla – è appena un esempio –

retroattività dell’errore. Ma uno di sinistra

di autentica sinistra (mi sorprendevo a domandarmi)

come ci sta come ci vive al mare?

Sebbene fossero (non tutti) più forti rematori nuotatori di me.

Anno: il ’51. Tempo del mondo: la Corea.

Certe volte – dissi col favore del buio – a sentire voi parlare

si sveglia in me quel negro che ho tradotto:

<<Hai cantato, non parlato, né interrogato il cuore delle

cose: come puoi conoscerle?>> dicono ridendo

gli scribi e gli oratori quando tu…

Ma intanto si disuniva la bella sera sul mare

e sui discorsi sui tavoli sui recinti di canne

dove ballavano scalzi el pueblo del alma mia

si dichiarò autunnale il tocco delle foglie

confusione e scompiglio sulla riva sinistra.

 

Qua sopra c’era la linea, l’estrema destra della Gotica,

si vedono ancora – ancora oggi lo ripeto

ai nuovi arrivi con la monotonia di una guida  –

le postazioni dei tedeschi.

Dal forte gli americani tiravano con l’artiglieria

e nel ’51 la lagna di un raro fuoribordo su per il fiume

era ancora sottilmente allarmante,

qualunque cosa andasse sul filo della corrente

passava per una testa mozza di trucidato.

Ancora balordo di guerra, di quella guerra

solo questo mi univa a quei parlanti parlanti

e ancora parlanti sull’onda della libertà…

 

olycom - abbiati -
Vittorio Sereni a Bocca di Magra (Liguria) (Fonte immagine: web)

Un posto di vacanza è ”una poesia in sette parti” (cit. Vittorio Sereni) datata 1973 che introduce la terza sezione di Stella variabile (1981), contenuta in Vittorio Sereni, Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo, edite da Mondadori nella collezione ”Oscar”, ed. 2013, da cui è tratta la presente parte I.

*

”Sviluppato in sette movimenti, tutti cesellati dall’immagine antropologicamente significativa del moto marino (possibile, come rileva Clelia Martignoni, il modello profondo della Waste Land di Eliot, di cui compaiono alcune spie), che ne determina la struttura ondivaga, il poemetto si presenta come riflessione sulla propria poesia, narrata nel momento stesso del suo farsi (…), in una sorta di monologo-dialogo tra il poeta e le sue figure <<antagoniste>>, in prima istanza Fortini ma anche Vittorini (…), attraverso cui mettere a fuoco i temi e le contraddizioni del proprio atteggiamento di poeta e di uomo, istintivamente attratto dal canto (…), teso a cogliere le palpitazioni dell’esistenza (…) e a rappresentarla nelle sue dimensioni di mutevolezza e di fertilità, ma rassegnato alla fine a dover rassegnarsi all’interno della propria poesia”.

(dalla nota introduttiva di Giulia Raboni)

Fortini-Sereni-web
Franco Fortini e Vittorio Sereni (Fonte: web)
  • A questo link è possibile ascoltare la lettura dello stesso Sereni di questa prima parte del poemetto, per la quale si ringrazia l’Archivio Vittorio Sereni (www.archiviovittoriosereni.it).

 

  • Qui è possibile scaricare il pdf del testo integrale del poemetto con la nota esplicativa di Vittorio Sereni (sito dell’Unimi) alla prima edizione del 1973.

 

 

Le curatrici del blog, con profondo debito di riconoscenza. 

VITTORIO SERENI, UN POSTO DI VACANZA – I

Tre poesie di Daniela Pericone da Distratte le mani, Coup d’idée, 2017 e un commento di Adriana Gloria Marigo

Pericone, immagine
Opera di Louise Bourgeois, 2004

Davanti a voi sospesi
d’inerzia e dolenti
traveggo un guado alle cime
d’assalto cavalco un volo
un calco di volto
in assolo.

14
Riverso dolore in tuono
assolto dal suo danno
se non impreca né spende
rancore a sorte di scarna allegrezza
deciduo alla carne dell’uomo
pur mentre l’uccide è spreco
d’avvampo pietà dissipata
tornio soltanto a sé stesso.

9
Incline a splendore
di parola offrirsi permeabile
a sola levatura – discorrere
sontuoso o scarno dire
purché lingua risuoni –
tale sia la maglia
che traverso sottigliezza
s’esali malaspina
in apice di fioritura,
non abbia a temere
s’esalti anzi la luna
a mostrare il lato
sbreccato.

Antonio Devicienti, nella postfazione a Distratte le mani individua una linea “petrosa” a proposito dell’ultima opera di Daniela Pericone. Convengo decisamente su questa connotazione, poiché il mostrarsi del verso della poetessa reggina si muove attraversato da rigore di porfido: la durezza della pietra in questione è anche affilata incisione di bisturi e la parola che Daniela usa ne ha la struttura magmatica e la proprietà icastica. Dunque, sono necessari precisione e rigore per governare una tale materia – forte e al tempo stesso delicata – poiché il risultato porterà visibili i segni dell’originalità dell’operazione. E l’originalità dei testi – si vedano i tre scelti – consiste nell’accogliere che la parola sia spesso inconsueta, scabra, osso di seppia nitido su cui l’ombra non ha azione o abbellimento e consegnare lo “scarno dire” tutto integro al lettore, così che egli ne possa sentire l’intrinseca potenza e l’irraggiamento verso ulteriori decifrazioni dei contenuti che rifuggono dalle aggettivazioni, dalla punteggiatura, da un di più che possa sottrarre forza alla parola, poiché essa sola, in suono tondo e puro, è depositaria di declinazioni ampie di senso.

danielapericone

Daniela Pericone è nata nel 1961 a Reggio Calabria, dove vive. Ha pubblicato i libri di poesia: ‘Passo di giaguaro’ (Ed. Il Gabbiano, 2000, con una nota di Adele Cambria), ‘Aria di ventura’ (Book Editore, 2005, prefazione di Giusi Verbaro), ‘Il caso e la ragione’ (Book Editore, 2010), ‘L’inciampo’ (L’arcolaio, 2015, prefazione di Gianluca D’Andrea e nota di Elio Grasso), Distratte le mani (Coup d’idée, 2017, postfazione di Antonio Devicienti). Cura, con enti e associazioni, eventi culturali e reading. È autrice e interprete di letture sceniche e recital, tra cui “Orfeo ed Euridice lo sguardo sull’ombra” e “Caravaggio”. Collabora con varie riviste culturali e lit-blog. Suoi interventi di critica letteraria, poesie, prose brevi e recensioni sono presenti in volumi antologici, riviste, siti e blog letterari.

 

Articolo a cura di Alba Gnazi

Tre poesie di Daniela Pericone da Distratte le mani, Coup d’idée, 2017 e un commento di Adriana Gloria Marigo

Lost in: Antonia Pozzi, Pace

tlslenarduzzi
Antonia Pozzi

 

Pace

ad A.M.C.

 

Ascolta:

come sono vicine le campane!

Vedi: i pioppi, nel viale, si protendono

per abbracciarne il suono. Ogni rintocco

è una carezza fonda, un vellutato

manto di pace, sceso dalla notte

ad avvolger la casa e la mia vita.

Ogni cosa, d’intorno, è grande e ombrosa

come tutti i ricordi dell’infanzia.

Dammi la mano: so quanto ha doluto,

sotto i miei baci, la tua mano. Dammela.

Questa sera non m’ardono le labbra.

Camminiamo così: la strada è lunga.

Leggo per un gran tratto nel futuro

come sul foglio che mi sta dinnanzi:

poi, la visione cade bruscamente

nel buio dell’ignoto, come questa

pagina bianca, che si rompe, netta,

sul panno scuro della scrivania.

Ma vieni: camminiamo: anche l’ignoto

non mi spaventa, se ti son vicina.

Tu mi fai buona e bianca come un bimbo

che dice le preghiere e s’addormenta.

 

Peace

for A.M.C.

 

Listen:

how close those bells are!

Look: the poplars, along the avenue, tend

their arms to embrace the sound. Each ring

is a deep caress, a velvety

shawl of peace, descended from the night

to envelop my home and my life.

Every thing, all around, is large and indistinct

like all the memories of my youth.

Give me your hand: I know how much it hurt,

under my kisses, your hand. Give it to me.

This evening my lips are not alight.

Let’s walk, thus: the road is long.

I read for some time into the future

like I would on this paper before me:

then, the image falls away brusquely

into the shadows of the unknown, like this

blank page, which tears, cleanly,

on the dark surface of the desk.

But come, let’s walk: even the unknown

doesn’t scare me, if I am near you.

You make me good and white like a child

who says her prayers and then falls asleep.

 

 

 

 

Antonia Pozzi, ”Pace”, tratta da Parole (1939, postumo).

 

Traduzione di Matilda Colarossi.

 

(Articolo a cura di Alba Gnazi)

Lost in: Antonia Pozzi, Pace

Un’idea di colazione (forse: una storia breve)

John Singer Sargent, The olive grove c.1908
John Singer Sargent, The Olive Grove 1908 ca.

 

Ciò che non ho detto mi soffoca la bocca unta in briciole di latte, infanzia a radio bassa accesa di là – quando entravo mi strisciava lo sguardo con le piovre strette in gola: nessun cenno: senza fretta, poi voltata altrove assorta: non le vedevo gli occhi così potevo respirare di sollievo in quell’odore fatto odio di abitudine a indicarsi soli anche osservando gli ulivi seduti sovrappensiero davanti a mattini d’inverno – un prefisso di apolidi rancori;
pesante lui arrivava, già stanco: versava il tè e mangiava in piedi una fetta dorata, le briciole sbranavano i mattoni lei guardava il pavimento in battiti di stizza aggrottata nel palato, lui usciva senza un fiato battendo gli scarponi in troppo freddo – come lei guardava spiccio, non si voltava. “Sei così da un pezzo ancora non hai finito sbrigati che è tardi ma quanto ti ci vuole perdio si può sapere”; il latte restava lì, a raffreddare.

***

 

Il Posto è (anche) luogo d’esperimenti

per futuri costruibili percorsi:

è, qui, una storia breve,

un dettato di fantasia,

forse un incipit;

un impasto per un progetto a quattro mani,

possibilmente per poesie,

sicuramente con poesie.

 

Si inizia.

 

L’inizio è in prima persona.

Il seguito si vedrà.

 

 

Articolo a cura di Alba Gnazi

 

Un’idea di colazione (forse: una storia breve)

Peter Handke: Canto alla durata

peter-handke

*

Mai ho sentito la durata
standomene al mio solito posto
– in quello star seduto in silenzio
che si dice faccia diventare «santi» – ,
mai ho sentito la durata
seduto a un tavolo riservato ai clienti abituali
– i relativi cartellini,
con tutto il rispetto per le trattorie,
mi sono insopportabili – ,
non ho mai sentito la durata
consumando le «pietanze favorite»,
ascoltando la «canzone preferita»,
passeggiando lungo la «mia» strada.

[…]

Sulla durata non si può fare alcun affidamento:
nemmeno la persona religiosa
che va ogni giorno a messa,
neppure chi è paziente, l’artista dell’attesa,
nemmeno colui che ti è fedele
e che senza esitazioni sarà sempre con te,
può averne la certezza per tutta la vita.
Credo di capire
che essa diventa possibile solo
quando riesco
a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,
quando riesco a essere cauto,
attento, lento,
sempre del tutto presente a me stesso sino nelle punte
delle dita.

E qual è la cosa
a cui devo restare fedele?
Essa ti apparirà nell’affetto
per i vivi
– per uno di loro –
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).

[…]

Il canto della durata è una poesia d’amore.
Parla di un amore al primo sguardo
seguito da numerosi altri primi sguardi.
E questo amore
ha la sua durata non in qualche atto
ma piuttosto in un prima e in un dopo,
dove per il diverso senso del tempo di quando si ama,
il prima era anche un dopo
e il dopo anche un prima.

Peter Handke e il “Canto alla durata”

Eppure la durata
non è legata all’amore tra i sessi.
Essa può in egual modo
avvolgerti nel continuo esercizio dell’amore per tuo
figlio
e anche in questo caso non certo con le coccole,
i baci, le carezze,
ma anche qui soltanto attraverso cose secondarie,
arrivando alla strada maestra per vie traverse,
l’atto d’amore
per cui servendolo lasci in pace il tuo bambino.
La durata accanto a tuo figlio
rivive forse
nei momenti di ascolto paziente,
nell’attimo in cui tu
con lo stesso gesto accurato
col quale dieci anni fa
appendevi all’attaccapanni
il cappotto azzurro con cappuccio «taglia bambino»,
adesso appendi una giacca di pelle scura «taglia adulto»
a un attaccapanni diverso in una città diversa,
la durata con tuo figlio
ti può cogliere
ogni volta che rinchiuso da ore nella stanza
con un lavoro che ti sembra utile,
senti quello che nel silenzio ancora mancava alla giustezza del tutto,
il rumore della porta che si apre,
segno del suo ritorno a casa,
che in quel momento a te,
il più sensibile ai rumori tra i sensibili ai rumori,
se proprio in quel momento stavi attento,
risuona come la musica più bella.
E tu senti la durata con il tuo discendente
nel modo più intenso forse
quando ti rendi invisibile
osservandolo di nascosto lungo la strada di ogni giorno,
quando precedi l’autobus in cui è salito
per poi veder passare,
tra una fila di estranei dietro il finestrino
quell’unico viso familariare
o quando semplicemente ti immagini da lontano
di vederlo fra gli altri, protetto dagli altri,
rispettato dagli altri
nella calca della metropolitana.

Per questi momenti della durata
il canto si concede un’espressione particolare:
essi ti coronano di stelle.

Ma anche continuare per anni a essere ben disposto nei tuoi confronti
può darti durata.
Sapermi guardare amorevolmente negli occhi
talvolta mi assolve.

[…]

(selezione da Canto alla durata, Traduzione di Hans Kitzmüller, Einaudi 2016)

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Cosa fa sì che a ciascuno accada il miracolo di dire io, di dire io sono, chino verso l’opaca trasparenza di uno specchio che restituisce un’immagine ogni giorno impalpabilmente diversa? Cosa rende possibile l’identità, la percezione del medesimo, nel mutamento inesorabile che dipana e riavvolge l’esistenza? Dove ci guardiamo quando ci guardiamo immoti e immutati nel cammino, cosa piega a spirale il percorso mostrando un paesaggio interiore che appare lo stesso a un occhio che muta la propria messa a fuoco?
Dove si dura, dove resiste la fiamma, e quale ossigeno ne alimenta la lingua e il colore? È lo stesso luogo in cui guardi tu, in cui guardano tutti? Portiamo qualcuno con noi, qualcuno o qualcosa residua a oltranza, estratto essenziale o astratta materia? È un’esperienza individuale o un sentire che connette alla dimensione storica, transpersonale? Acquieta, sentire la durata, sapere la propria durata, o invece genera scosse, sommovimenti e risorgenze spettrali e inquietanti?

“…se avesse una regola/richiederebbe una paragrafo/e non una poesia” avverte Handke.

E la poesia, sì, la poesia può essere la bussola, l’ago che sfida il magnetismo autoreferenziale di tutti gli interrogativi nucleari, il salto logico nella luce sapienziale.

ps

(Articolo a cura di Patrizia Sardisco)

Peter Handke: Canto alla durata

Parola riflettente: Roberto Sanesi: Dire, non dire – con nota a margine

 

 

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Ugo Manaresi (1851-1917), Veliero nella tempesta

 

DIRE NON DIRE

 

dire non dire, dissimulare dicendo, spostare

il segno, il confine – per evitare (che cosa?)

dev’essere infatti per ragioni pratiche che esiste,

da qualche parte, una realtà prestabilita

 

questo mare ingabbiato dalla sabbia, dove le code

e le cannule e le chele si esibiscono, acrobate,

e appaiono e scompaiono nelle frane, recinto

dalle reti, dalle griglie, dal grigio topo di questo

novembre di rancori,

con la tetraggine e il resto,

che gli si addice, e tu che ti introduci

con alghe morte e parrucca, le labbra serrate,

mentre sto ancora pensando a che consigli dare

(come sarebbe, dicono, democrazia o amore)

sulla provocazione, fruscìo di ciottoli, scroscio

di rudezza, tenerezza della pietra,

e il macinarsi insieme del dubbio – dev’essere

per ragioni pratiche, senza dimenticarti, o magari fingendo,

che uno si mette in tasca la notte,

se l’appallottola, la strappa con le unghie non visto,

la tortura come un rosario arabo, non tanto

per passare il tempo, ma per adeguarsi al dolore,

per stabilire il luogo dell’addio (cosa ce ne facciamo

di un dito infilato nella sabbia, di un rimando),

con questo mare che sbatte, che rotola e sgretola,

e la pioggia di traverso, il va e vieni del dramma

di chi non riconosce né il suono né il senso

 

del dire, non dire, dissimulare, annegare, spostare

la fitta, la ferita, il girotondo delle dita fra i capelli,

per ritrovarsi un’immagine (sua, mia, di lei, ecc.)

che poi risulta prestabilita – cosa ce ne facciamo

dei rapporti, dei meriti, degli errori, dei nodi, dei paradigmi

di questa cosa splendida e idiota – nemmeno fosse la vita

 

novembre 1976

 

 

***

 

 

CONFIDENZIALE

 

io che sono la prima persona di un tu che mi scivola

dalle tasche rigonfie, e manovra un po’ subdolo, amico

a serramanico, similitudine inquieta del voi,

per dimostrare che una scimmia non è Darwin, e astuto

passeggia con in testa il mio cappello, tentando

di costringermi sempre a salutarmi,

solo se mi allontano

si mette a fuoco, si attiene a un tic privato, si presenta

con un accenno di inchino, mi volta le spalle: qualcuno

mi tocca …

a condizione però che sia freddo

il luogo dell’incontro, il congegno del caso, nel caso

che per abuso di qualche verità si converta, e pretenda

di insinuarsi in un me, in un erratico oggetto

il cui profilo da terza persona potrebbe imbarazzarci

infilato nel cappio del racconto

 

(Da Recitazione obbligata, 1981)

 

***

 

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Remedios Varo, Los amantes, 1963

ALTEREGO SI OSSERVA IN UNA SPECOLA

 

Assomiglio, mi dicono, a Ulisse: probabilmente

per un torciglio di barba che si tesse

fra l’orecchio e le labbra con grazia solitaria, o perché

non busso mai alle porte, o non so riconoscere

nulla che non mi irriti. Un po’ veramente,

come sarebbe accaduto anche a Voltaire ritrovando

sempre la stessa natura morta, lei, ma perfino

lo spazio, la trama, fino a interrompere

l’interessante assurdo del racconto.

E quindi non mi giova.

Trovo la perfezione noiosa, il colore dei cani

mi piace che scodinzoli. Ogni volta

penso che lo zodiaco proponga lo stesso destino.

A che serve

metterci tanto tempo per illudersi?

Ma per fortuna il buio non ha movimento.

 

 

***

 

SOLO ORNAMENTO DI QUESTA PRIMAVERA

 

Tutto succede quando

si comincia di nuovo a non capire,

e il maltempo imperversa

anche nei mesi estivi, battendo sui fiori di cardo

seccati al davanzale con gli occhiali, e si cerca

di ricomporre a filo di qualche tavolaccio

la prospettiva sghemba delle nuvole.

Il tempo

scricchiola sotto il peso di troppe suppellettili

spostate qua e là per dedicarle a immagini del sacro

dove colonne di fumo si attorcono, e subito ti accorgi

che i servi portano in scena su un vassoio

un pasticcio di luna e di fuliggini.

A volte, con specchi

che si ritraggono opachi, entrano voci di donna, respiri

e frammenti di bocca che non sanno

come raggiungere le ultime parole pronunciate. Parole

che salgono nell’aria, si scontrano e ricadono

con quella stella che chiamano Assenzio. Ma il grillo

ruota le zampe a trottola in fondo al cilindro

che il personaggio viola, Monsieur, s’è levato nel buio

per salutare il passaggio di una lingua spenta, nel vento

che gli rastrella i capelli, e all’orizzonte

una capanna di paglia fiammeggia.

E così si finisce

con lo sperare che le acque salgano, e forse

si inventano parabole, anche se è sempre la paura a mettere

argini attorno al vuoto, e perfino il rumore delle ali

si increspa, proprio passando sotto alle ginocchia, e si vedono

sacchi a brandelli.

Se esci, ricordati

il dizionario, solo ornamento di questa primavera.

 

 

(Da La differenza, 1988)

 

***

 

 

TALPA CELESTE

essendo stato richiesto di scrivere sul tema del destino

 

Pensavo alla modestia della talpa,

alla raspante, angelicata attività di scavo

in un cielo che odora di terriccio, quadrato

forzato a farsi triangolo, vuoto e confine,

dove una frana non è mai un amen,

e i dolmen si rigonfiano in excelsis

nella sostanza profonda dell’aria, e lo sguardo

si inazzurra in se stesso, riattiva la visione

del chamalèo – se è lecito inventare

ciò che si finge, e che di conseguenza, ricercando

la direzione del pensato, il risveglio, la sua esecuzione,

ruspa come l’arùspice e si ròsica, al centro

di un’altra verità, quasi con grazia,

in lieve zampettìo di luce e cenere. Un segno

delle sorgenti. E qualcuno si affanna a domandare

chi le abbia insegnato queste cose. E chi altri,

se non tu costringendomi a parlare

contro la mia volontà? Animale terribile, sherpa

di grigi sempre più intensi, archeologo

della salita in discesa, del suo rovescio, simmetrico

esecutore di mura a precipizio, parola vagabonda

nel trapassato futuro, parvenza d’annegato

fra le zolle dell’etere, e desiderio, congegno

di qualche daimon di vanga, sospetto

impercettibile tric d’ogni deserto concavo. La volta

si sgretola frenetica fra i denti, riflette

e si riflette, finis, lungamente. Una cupola. Se

il cielo fosse un albero, il suo nome

sarebbe àphala: e infatti il seme è sempre

nella radice.

 

(Da Téchne)

***

 

 

IL PRIMO GIORNO DI PRIMAVERA

 

Qualcosa che qualcuno

farà di nuovo e di nuovo,

senza saperlo. Il candore

di questa umidità,

l’identità nascosta del monologo,

e il solito fruscìo

che risale negli alberi, le ossa

cadute dalla luna.

Su questo confine.

Con il nero delle lumache selvatiche.

Con la metà della notte che germoglia

per la lunghezza di un prato.

E magari l’arcangelo di sabbia.

Ma poi cosa ne hai fatto

di questa simmetria.

Ecco.

E la voce che parla da una riva all’altra.

E i nomi che dividono.

E quelli che si toccano la fronte.

Ma chi, perché, in che senso

mi state minacciando?

Con le zolle che perdono i capelli.

Con le figure che passano in abito leggero

per un sentiero che nemmeno sai.

Ebbene, mi rifiuto: ma allora

semplicemente la pioggia,

la causa, l’effetto,

la sua dimostrazione.

Questo paese abitato

da suoni impercettibili.

 

 

 

SENZA DATA

 

Perché portare a termine

quando nessuno, in giardino,

ha mai visto il mio glicine concluso.

Se allora fosse il fiore il fallimento,

questa, diremmo, è la bellezza del mondo,

la sua esperienza visibile.

 

(Da Il primo giorno di primavera)

 

*** 

 

 

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(Tutte le poesie qui presentate appartengono al volume Roberto Sanesi – Poesie 1957-2000, a cura di R. Cremante, edito da Mondadori nel 2010)

 

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PAROLA RIFLETTENTE – NOTA A MARGINE (di Alba Gnazi)

[Sanesi lo conoscevo come traduttore di Eliot. Uno dei più noti, tra i traduttori italiani del Poeta. In effetti ignoravo, fino a non molto tempo fa, che Roberto Sanesi fosse un poeta a sua volta: fino a quando, per puro caso, mi sono imbattuta in alcune delle sue poesie: attraverso le quali ho conosciuto la Sua voce – e nelle quali ho riconosciuto certe Voci a me care e più note.

Leggere Sanesi è, per me, camminare a piedi certi nel dialogo costante, intenso,  indelebile del Poeta tra sé con sé e con il tempo, i fatti, le origini e le cose; con gli Autori-Maestri, Eliot in primis, che hanno informato i suoi percorsi; è affondare il passo nell’argilloso fondale di una ricerca mai fine a se stessa, ponderata da istanze metafisiche e linguistiche che trovano, nell’espressione poetica, pieno svolgimento.

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Roberto Sanesi

L’in-fieri, il senso del dinamismo (come ben delineato nella corposa prefazione del curatore del volume cui faccio riferimento, Renzo Cremante), del contraddittorio, della Ricerca (non a caso la metafora di Ulisse: il nostos interminabile del viaggiante, l’indefinita patria interiore)- che, mi si passi l’analogia, rievoca quasi la costruzione di una cattedrale, Sagrada e protesa a braccia larghe verso il cielo- questo senso talora sussurrato, talaltra più ferocemente esibito nell’accumulo lessicale, nella titolazione dei testi, nelle intenzioni più o meno percepite, più o meno latenti o (all’opposto) programmatiche della sua Poesia; la conclamata ricomposizione di un Sé pluricentrico, opposto a, e tradotto in, un Alter di cui si dice specchio causa e conseguenza; la lingua inglese, trasfusa nel dettato linguistico interiore, che plasma la versificazione con rimandi cadenze e ritmi ben presto riconoscibili come quid del suo poetare; le mura fortificate della Poesia anglosassone  -quella (appunto) tradotta, letta, studiata – e di quella italiana (echi di Luzi e Montale a sprazzi): leggere Sanesi, in questo novembre di brume e brulichii, conviene all’animo mai sazio, alla Ricerca personale che diventa ricerca altrui e (per estensione) collettiva; a conservare, dilatandoli,  certi echi in altri tempi e altre circostanze spiaggiati alla memoria; a rifinire, scontornandolo, il tessuto di una domanda sempre aperta – come una traduzione, una costruzione, un apprendimento: in fieri e lifelong.]

 

 

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(Articolo a cura di Alba Gnazi)

Parola riflettente: Roberto Sanesi: Dire, non dire – con nota a margine