Preferisco non parlarti
con senso di vertigine
scrivendo
ma, guardandoti dal suolo quotidiano
nelle vicine distanze che ci annullano
da un fare che fa solo rima,
perché lontani dalla parola
che non ci siamo detti.
***
Tu
che mi chiedi il saluto
con una stretta di mano
mi fuggi
dalla prossemica di un abbraccio
senza capire che il cuore
non si tocca neppure
quando si muore.
***
Cosa ci faccio qui al parcheggio
con il piede fuori dalla macchina
e interrogativi fra le rughe?
Non ho un solo lunedì
ma tanti
ravvicinati giorni torpidi
mi dicono di andare
andare, andare dove
se poi non mi conosco
e manco di saluto?
***
Non c’è quarzo che brilli
nell’ora
il tempo è morto nell’attesa
che qualcosa ci illumini.
***
Togliendo, rimetto
omettendo – commetto
L’atto di stare, non è sempre
come ingiusta, è la parola.
***
Ti dissi che vedevo dal vetro
la fragilità del giorno.
Non era l’asfalto sotto casa
la grondaia rotta, neppure
l’insegna difronte senza la vocale.
È vero, non sono passati a tagliare l’erba
e, oramai anche le strisce pedonali
sono sbiadite
lo vedi tutto questo trasparire dal nostro viso?
***
Un giorno faremo a meno di me
Tu sarai nel sud est Asiatico
parlerai cinque lingue
nella metropoli che diventerà il tuo palmo.
Mi racconterai: del cibo,
del significato della parola “multietnico”
della compostezza.
Avrai imparato a mangiare con le bacchette?
Per la fioritura di primavera non ci sarò.
Sarò sotto allo stelo che guardi
l’impasto di terra dove camminerai
il timbro di voce che avrà parola
nel tuo silenzio, domani.
***
“Per me scrivere è vivere, perché non so mai dove mi porterà. É un viaggio lunghissimo, interminabile, dove non si arriva mai. Questo forse per me è proprio il fascino di questo momento di raccoglimento. Uso questo termine, “provare a fare poesia” è un modo di vivere, insomma è un modo per comunicare ciò che sto attraversando nel giorno, durante il giorno, mettendo appunto all’interno della mia poetica, il mio “io, che siamo noi, oggetti, luoghi, tutto descritto molto spesso all’interno di una stanza, che fondamentalmente è la mia stanza, dove spesso mi capita appunto di guardare il mondo, diciamo sempre più all’interno delle cose e protetti dentro quattro mura, per cercare di rimanere riparati da quello che è l’esterno. L’esterno che mi capita di vedere, ma preferisco come un ignoto osservare tutto ciò che vedo e vivo”
(Nicola Manicardi, risposta a un’intervista alla testata online XXISecolo)
dev’essere infatti per ragioni pratiche che esiste,
da qualche parte, una realtà prestabilita
questo mare ingabbiato dalla sabbia, dove le code
e le cannule e le chele si esibiscono, acrobate,
e appaiono e scompaiono nelle frane, recinto
dalle reti, dalle griglie, dal grigio topo di questo
novembre di rancori,
con la tetraggine e il resto,
che gli si addice, e tu che ti introduci
con alghe morte e parrucca, le labbra serrate,
mentre sto ancora pensando a che consigli dare
(come sarebbe, dicono, democrazia o amore)
sulla provocazione, fruscìo di ciottoli, scroscio
di rudezza, tenerezza della pietra,
e il macinarsi insieme del dubbio – dev’essere
per ragioni pratiche, senza dimenticarti, o magari fingendo,
che uno si mette in tasca la notte,
se l’appallottola, la strappa con le unghie non visto,
la tortura come un rosario arabo, non tanto
per passare il tempo, ma per adeguarsi al dolore,
per stabilire il luogo dell’addio (cosa ce ne facciamo
di un dito infilato nella sabbia, di un rimando),
con questo mare che sbatte, che rotola e sgretola,
e la pioggia di traverso, il va e vieni del dramma
di chi non riconosce né il suono né il senso
del dire, non dire, dissimulare, annegare, spostare
la fitta, la ferita, il girotondo delle dita fra i capelli,
per ritrovarsi un’immagine (sua, mia, di lei, ecc.)
che poi risulta prestabilita – cosa ce ne facciamo
dei rapporti, dei meriti, degli errori, dei nodi, dei paradigmi
di questa cosa splendida e idiota – nemmeno fosse la vita
novembre 1976
***
CONFIDENZIALE
io che sono la prima persona di un tu che mi scivola
dalle tasche rigonfie, e manovra un po’ subdolo, amico
a serramanico, similitudine inquieta del voi,
per dimostrare che una scimmia non è Darwin, e astuto
passeggia con in testa il mio cappello, tentando
di costringermi sempre a salutarmi,
solo se mi allontano
si mette a fuoco, si attiene a un tic privato, si presenta
con un accenno di inchino, mi volta le spalle: qualcuno
mi tocca …
a condizione però che sia freddo
il luogo dell’incontro, il congegno del caso, nel caso
che per abuso di qualche verità si converta, e pretenda
di insinuarsi in un me, in un erratico oggetto
il cui profilo da terza persona potrebbe imbarazzarci
infilato nel cappio del racconto
(Da Recitazione obbligata, 1981)
***
ALTEREGO SI OSSERVA IN UNA SPECOLA
Assomiglio, mi dicono, a Ulisse: probabilmente
per un torciglio di barba che si tesse
fra l’orecchio e le labbra con grazia solitaria, o perché
non busso mai alle porte, o non so riconoscere
nulla che non mi irriti. Un po’ veramente,
come sarebbe accaduto anche a Voltaire ritrovando
sempre la stessa natura morta, lei, ma perfino
lo spazio, la trama, fino a interrompere
l’interessante assurdo del racconto.
E quindi non mi giova.
Trovo la perfezione noiosa, il colore dei cani
mi piace che scodinzoli. Ogni volta
penso che lo zodiaco proponga lo stesso destino.
A che serve
metterci tanto tempo per illudersi?
Ma per fortuna il buio non ha movimento.
***
SOLO ORNAMENTO DI QUESTA PRIMAVERA
Tutto succede quando
si comincia di nuovo a non capire,
e il maltempo imperversa
anche nei mesi estivi, battendo sui fiori di cardo
seccati al davanzale con gli occhiali, e si cerca
di ricomporre a filo di qualche tavolaccio
la prospettiva sghemba delle nuvole.
Il tempo
scricchiola sotto il peso di troppe suppellettili
spostate qua e là per dedicarle a immagini del sacro
dove colonne di fumo si attorcono, e subito ti accorgi
che i servi portano in scena su un vassoio
un pasticcio di luna e di fuliggini.
A volte, con specchi
che si ritraggono opachi, entrano voci di donna, respiri
e frammenti di bocca che non sanno
come raggiungere le ultime parole pronunciate. Parole
che salgono nell’aria, si scontrano e ricadono
con quella stella che chiamano Assenzio. Ma il grillo
ruota le zampe a trottola in fondo al cilindro
che il personaggio viola, Monsieur, s’è levato nel buio
per salutare il passaggio di una lingua spenta, nel vento
che gli rastrella i capelli, e all’orizzonte
una capanna di paglia fiammeggia.
E così si finisce
con lo sperare che le acque salgano, e forse
si inventano parabole, anche se è sempre la paura a mettere
argini attorno al vuoto, e perfino il rumore delle ali
si increspa, proprio passando sotto alle ginocchia, e si vedono
sacchi a brandelli.
Se esci, ricordati
il dizionario, solo ornamento di questa primavera.
(Da La differenza, 1988)
***
TALPA CELESTE
essendo stato richiesto di scrivere sul tema del destino
Pensavo alla modestia della talpa,
alla raspante, angelicata attività di scavo
in un cielo che odora di terriccio, quadrato
forzato a farsi triangolo, vuoto e confine,
dove una frana non è mai un amen,
e i dolmen si rigonfiano in excelsis
nella sostanza profonda dell’aria, e lo sguardo
si inazzurra in se stesso, riattiva la visione
del chamalèo – se è lecito inventare
ciò che si finge, e che di conseguenza, ricercando
la direzione del pensato, il risveglio, la sua esecuzione,
ruspa come l’arùspice e si ròsica, al centro
di un’altra verità, quasi con grazia,
in lieve zampettìo di luce e cenere. Un segno
delle sorgenti. E qualcuno si affanna a domandare
chi le abbia insegnato queste cose. E chi altri,
se non tu costringendomi a parlare
contro la mia volontà? Animale terribile, sherpa
di grigi sempre più intensi, archeologo
della salita in discesa, del suo rovescio, simmetrico
esecutore di mura a precipizio, parola vagabonda
nel trapassato futuro, parvenza d’annegato
fra le zolle dell’etere, e desiderio, congegno
di qualche daimon di vanga, sospetto
impercettibile tric d’ogni deserto concavo. La volta
si sgretola frenetica fra i denti, riflette
e si riflette, finis, lungamente. Una cupola. Se
il cielo fosse un albero, il suo nome
sarebbe àphala: e infatti il seme è sempre
nella radice.
(Da Téchne)
***
IL PRIMO GIORNO DI PRIMAVERA
Qualcosa che qualcuno
farà di nuovo e di nuovo,
senza saperlo. Il candore
di questa umidità,
l’identità nascosta del monologo,
e il solito fruscìo
che risale negli alberi, le ossa
cadute dalla luna.
Su questo confine.
Con il nero delle lumache selvatiche.
Con la metà della notte che germoglia
per la lunghezza di un prato.
E magari l’arcangelo di sabbia.
Ma poi cosa ne hai fatto
di questa simmetria.
Ecco.
E la voce che parla da una riva all’altra.
E i nomi che dividono.
E quelli che si toccano la fronte.
Ma chi, perché, in che senso
mi state minacciando?
Con le zolle che perdono i capelli.
Con le figure che passano in abito leggero
per un sentiero che nemmeno sai.
Ebbene, mi rifiuto: ma allora
semplicemente la pioggia,
la causa, l’effetto,
la sua dimostrazione.
Questo paese abitato
da suoni impercettibili.
SENZA DATA
Perché portare a termine
quando nessuno, in giardino,
ha mai visto il mio glicine concluso.
Se allora fosse il fiore il fallimento,
questa, diremmo, è la bellezza del mondo,
la sua esperienza visibile.
(Da Il primo giorno di primavera)
***
(Tutte le poesie qui presentate appartengono al volume Roberto Sanesi – Poesie 1957-2000, a cura di R. Cremante, edito da Mondadori nel 2010)
***
PAROLA RIFLETTENTE – NOTA A MARGINE (di Alba Gnazi)
[Sanesi lo conoscevo come traduttore di Eliot. Uno dei più noti, tra i traduttori italiani del Poeta. In effetti ignoravo, fino a non molto tempo fa, che Roberto Sanesi fosse un poeta a sua volta: fino a quando, per puro caso, mi sono imbattuta in alcune delle sue poesie: attraverso le quali ho conosciuto la Sua voce – e nelle quali ho riconosciuto certe Voci a me care e più note.
Leggere Sanesi è, per me, camminare a piedi certi nel dialogo costante, intenso, indelebile del Poeta tra sé con sé e con il tempo, i fatti, le origini e le cose; con gli Autori-Maestri, Eliot in primis, che hanno informato i suoi percorsi; è affondare il passo nell’argilloso fondale di una ricerca mai fine a se stessa, ponderata da istanze metafisiche e linguistiche che trovano, nell’espressione poetica, pieno svolgimento.
L’in-fieri, il senso del dinamismo (come ben delineato nella corposa prefazione del curatore del volume cui faccio riferimento, Renzo Cremante), del contraddittorio, della Ricerca (non a caso la metafora di Ulisse: il nostos interminabile del viaggiante, l’indefinita patria interiore)- che, mi si passi l’analogia, rievoca quasi la costruzione di una cattedrale, Sagrada e protesa a braccia larghe verso il cielo- questo senso talora sussurrato, talaltra più ferocemente esibito nell’accumulo lessicale, nella titolazione dei testi, nelle intenzioni più o meno percepite, più o meno latenti o (all’opposto) programmatiche della sua Poesia; la conclamata ricomposizione di un Sé pluricentrico, opposto a, e tradotto in, un Alter di cui si dice specchio causa e conseguenza; la lingua inglese, trasfusa nel dettato linguistico interiore, che plasma la versificazione con rimandi cadenze e ritmi ben presto riconoscibili come quid del suo poetare; le mura fortificate della Poesia anglosassone -quella (appunto) tradotta, letta, studiata – e di quella italiana (echi di Luzi e Montale a sprazzi): leggere Sanesi, in questo novembre di brume e brulichii, conviene all’animo mai sazio, alla Ricerca personale che diventa ricerca altrui e (per estensione) collettiva; a conservare, dilatandoli, certi echi in altri tempi e altre circostanze spiaggiati alla memoria; a rifinire, scontornandolo, il tessuto di una domanda sempre aperta – come una traduzione, una costruzione, un apprendimento: in fieri e lifelong.]
La città – mi dico – dove l’ombra
quasi più deliziosa è della luce
come sfavilla tutta nuova al mattino…
«…asciuga il temporale di stanotte» – ride
la mia gioia tornata accanto a me
dopo un breve distacco.
«Asciuga al sole le sue contraddizioni»
– torvo, già sul punto di cedere, ribatto.
Ma la forma l’immagine il sembiante
– d’angelo avrei detto in altri tempi –
risorto accanto a me nella vetrina:
«Caro – mi dileggia apertamente – caro,
con quella faccia di vacanza. E pensi
alla città socialista?».
Ha vinto. E già mi sciolgo: «Non
arriverò a vederla» le rispondo.
(Non saremo
più insieme, dovrei dire). «Ma è giusto,
fai bene a non badarmi se dico queste cose,
se le dico per odio di qualcuno
o rabbia per qualcosa. Ma credi all’altra
cosa che si fa strada in me di tanto in tanto
che in sé le altre include e le fa splendide,
rara come questa mattina di settembre…
giusto di te tra me e me parlavo:
della gioia.»
Mi prende sottobraccio.
«Non è vero che è rara, – mi correggo – c’è,
la si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. È
quest’ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un’arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza.
Potrei
con questa uccidere, con la sola gioia…».
Ma dove sei, dove ti sei mai persa?
«È a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione»
dico alla vetrina ritornata deserta.
Vittorio Sereni, da Gli strumenti umani, Einaudi 1965
Ti ricordo, sostieni,
la siepe oltre il giardino,
quella che s’addentra
nei corridoi delle formiche, dove
bugiardi sciamani non videro ombre,
mentre nel legno
s’addensavano mugolii.
Contro di me hai sferrato
pudori e controsensi, colpevole
di onestà da contrabbando
e forse ignori
che la siepe dinanzi al giardino
d’inverno soffoca di luce
e le faine ogni notte mozzano teste.
Un dì sentii che Casa
è uno stato d’animo
Io dico che una siepe
È uno stato d’animo,
Una siepe,
le ossa che inghiotte,
oppure i gas
smarriti dalle voci,
o gli aloni all’incrocio dei sudori
Una siepe è astio e connivenza,
duole al cranio raccattarne gli idiomi:
Paglie romanzate dal libeccio, nel
Corteo funebre delle api al tramonto.
Mi hai studiato in due tempi, con me
E senza me
Hai oltraggiato la siepe coi tuoi risvegli
Coi bouquet consumati dall’ansia
Di non essere lanciati
Col dipinto della mia schiena come
un muro cui aggrapparti, inconsistente
tale a questa siepe:
tempio, carcere, famiglia,
lantana per olmi
svezzati da uno scorcio,
lettera di pane e terra
per i dormienti delle colline.
Hai tre rose brevi strette in mano
e un chiodo per contrappeso
a un amore che
non ti fa domande,
che s’addentra con la siepe
nei corridoi delle formiche.
(Mariangela Gualtieri, da Voci tempestate, in Senza polvere senza peso, G. Einaudi Editore 2016)
***
IL BALLO
Finché non si sa ancora nulla di certo,
non essendo arrivati segnali,
finché la Terra continua a esser diversa
dai pianeti più vicini e più lontani,
finché non c’è neanche l’ombra
di altre erbe onorate dal vento,
di altri alberi incoronati,
di altri animali dimostrati come i nostri,
finché non c’è eco, tranne quella del posto,
capace di parlare con le sillabe,
finché non si hanno nuove
di mozart migliori o peggiori,
di edison o platoni in qualche luogo,
finché i nostri crimini
possono rivaleggiare soltanto fra loro,
finché la nostra bontà
per adesso non è ancora simile a nessuna,
ed è eccezionale perfino nell’imperfezione,
finché le nostre teste piene di illusioni
passano per le uniche teste piene di illusioni,
finché solo dalle nostre volte palatine
si levano grida agli alti cieli –
sentiamoci ospiti speciali e distinti
nella balera del posto,
balliamo al ritmo dell’orchestrina locale
e ci sembri pure
che sia il ballo dei balli.
Non so agli altri –
per essere felice e infelice
a me basta e avanza questo:
una dimessa provincia
dove anche le stelle sonnecchiano
e ammiccano nella sua direzione
non significativamente.
(Wisława Szymborska, da ‘’Chwila’’ – Attimo in La gioia di scrivere -Tutte le poesie (1945-2009); Adelphi Edizioni 2009; trad. italiana a cura di Pietro Marchesani)
***
UNA COSA CHE NON SO DIRE
Ascolta, ecco, anch’io ti parlo degli oggetti
ti racconto che in questa stanza c’era un letto
dove ora c’è una parete bianca spoglia
dove domani – o un altro giorno – appenderò la foto
incorniciata argento che scatteremo insieme
quando verrai, quando il legno secco della mia porta
scolorirà piano piano al tocco della tua mano lento
nel bussare
Vedi, ecco, anch’io ci provo a dire della scala
che non ho mai saltato i suoi gradini in cima
e della sedia morbida di rosso che gira fissa
al bordo teso della mia scrivania e poi, sì,
della finestra che ti vorrei incontrare di lontano
riflesso, una sagoma appena, ma non tu
-nel viale a passi svelti – ma il volto nudo dell’assenza
che si confonde nell’attesa al tuo
(e non sei tu che voglio in quella foto
e non sei tu che siedi la mia sedia e scrivo
e non sei tu che Sali l’ultimo gradino
fino alla porta chiusa e al letto, il letto
un altro uomo se l’è portato via
e resta – una parola – il sonno denso dell’infanzia
che schiaccia all’improvviso gli occhi al buio)
Guarda, ecco anch’io (non) dormo
come una cosa che non so dire, come un oggetto
dimenticato rotto – in pezzi, quanti –
e tu aiutami a contarli, sottovoce, ad uno ad uno.
(Silvia Rosa, da Amore centro in Genealogia imperfetta, La Vita Felice 2014)
Le giovinette così nude e umane
senza maglia sul fiume, con che miti
membra, presso le pietre acri e l’odore
stupefatto dell’acqua, aprono inviti
taciturni nel sangue! Mentre il sole
sale le loro dolci reni e l’aria
ha l’agrezza dei corpi, io in che parole
fuggo – perché m’esilio a una contraria
vita, dove quei teneri sudori,
sciolti da pori vergini, non hanno
che il respiro di un nome?… Dagli afrori
leggeri dei capelli nacque il danno
che il mio cuore ora sconta. E ai bei madori
terrestri, ecco che oppongo: oh versi! oh danno!
(da Il passaggio di Enea, 1943-1955)
***
Piuma
Mia pagina leggera:
piuma di primavera.
Nella mattina di marzo,
dentro un sole di quarzo,
ragazze fuori porta
(transitorie e sincere)
passano, vive e vere,
dischiusa la bocca commossa.
Ragazze calde e alte,
tra il verde delle piante.
Ragazze quasi campagne
e marine, il cui sangue
accende, ventilata,
l’aria, che n’è illuminata.
Ragazze in carne e in colore,
da matrimonio d’amore.
Ma ohi come la più fina
manca di loro: Annina!
(da Il seme del piangere, 1959)
***
Araldica
Amore, com’è ferito
Il secolo, e come siamo soli
– tu, io – nel grigiore
che non ha nome. Finito
è il tempo dell’usignolo
e del leone. Il blasone
è infranto. Il liocorno
orma non ha lasciato
sul suolo: l’Ombra, è in cuore.
(da Il muro della terra, 1964-1975)
***
L’ombra e il canto
Ero entrato in chiesa con l’erba.
Non c’era nessun altro.
Soltanto
io e quell’odore d’erba
entrato con me.
C’era fresco.
Per quanto mi sforzi, non riesco
a ricordare il canto
e l’ombra che la mia mente serba.
(L’ombra e il canto dell’erba?)
(Da Il conte di Kevenhuller, 1986)
Le poesie presentate sono tratte da Caproni, Tutte le poesie, Garzanti 2016
Forse mi vedi, tu
pendere dall’alto
getto i sacchi di sabbia e le zavorre
hanno bocche di sogni senza fiato
le palpebre di carta. Scrivo dentro
Dall’alto è marea d’aria d’alticumuli
col ghiaccio sulla fronte
nulla mi strappa a me
ho un chiodo in mano
e nulla
nemmeno un orizzonte da rigare
da quest’altra parte del destino
solo rigore e aria, aria e rigore.
Patrizia Sardisco, agosto 2016
Solo aria e rigore – dici –
ma tu sei salto e frangivento per cicogne
sposate a odor di nebbia –
ubbia per apostoli del sole,
cengia brulla ai brulichii dell’alba, rimpianto
sgrumato da un presente,
da un bisogno
di soppiatto sfiorato, come quando
al Lungotevere raccontasti
la traiettoria di un abbraccio
che muto ti sopraffece –
e fosti canale e ambra
per memorie,
rigate da *mani a difesa di te
così largo il giorno
se lo intessi del tuo respiro.