Nicola Manicardi, poesie inedite

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Nicola Manicardi

 

 

Preferisco non parlarti
con senso di vertigine
scrivendo
ma, guardandoti dal suolo quotidiano
nelle vicine distanze che ci annullano
da un fare che fa solo rima,
perché lontani dalla parola
che non ci siamo detti.

***

Tu
che mi chiedi il saluto
con una stretta di mano
mi fuggi
dalla prossemica di un abbraccio
senza capire che il cuore
non si tocca neppure
quando si muore.

***

Cosa ci faccio qui al parcheggio
con il piede fuori dalla macchina
e interrogativi fra le rughe?
Non ho un solo lunedì
ma tanti
ravvicinati giorni torpidi
mi dicono di andare
andare, andare dove
se poi non mi conosco
e manco di saluto?

***

Non c’è quarzo che brilli
nell’ora
il tempo è morto nell’attesa
che qualcosa ci illumini.

***

Togliendo, rimetto
omettendo – commetto
L’atto di stare, non è sempre
come ingiusta, è la parola.

***
Ti dissi che vedevo dal vetro
la fragilità del giorno.
Non era l’asfalto sotto casa
la grondaia rotta, neppure
l’insegna difronte senza la vocale.
È vero, non sono passati a tagliare l’erba
e, oramai anche le strisce pedonali
sono sbiadite
lo vedi tutto questo trasparire dal nostro viso?

***

Un giorno faremo a meno di me

Tu sarai nel sud est Asiatico
parlerai cinque lingue
nella metropoli che diventerà il tuo palmo.
Mi racconterai: del cibo,
del significato della parola “multietnico”
della compostezza.
Avrai imparato a mangiare con le bacchette?
Per la fioritura di primavera non ci sarò.
Sarò sotto allo stelo che guardi
l’impasto di terra dove camminerai
il timbro di voce che avrà parola
nel tuo silenzio, domani.

***

 

“Per me scrivere è vivere, perché non so mai dove mi porterà. É un viaggio lunghissimo, interminabile, dove non si arriva mai. Questo forse per me è proprio il fascino di questo momento di raccoglimento. Uso questo termine, “provare a fare poesia” è un modo di vivere, insomma è un modo per comunicare ciò che sto attraversando nel giorno, durante il giorno, mettendo appunto all’interno della mia poetica, il mio “io, che siamo noi, oggetti, luoghi, tutto descritto molto spesso all’interno di una stanza, che fondamentalmente è la mia stanza, dove spesso mi capita appunto di guardare il mondo, diciamo sempre più all’interno delle cose e protetti dentro quattro mura, per cercare di rimanere riparati da quello che è l’esterno. L’esterno che mi capita di vedere, ma preferisco come un ignoto osservare tutto ciò che vedo e vivo”

(Nicola Manicardi, risposta a un’intervista alla testata online XXI Secolo)

 

Fonte immagine: web.

 

Articolo a cura di Alba Gnazi

Nicola Manicardi, poesie inedite

Parola riflettente: Roberto Sanesi: Dire, non dire – con nota a margine

 

 

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Ugo Manaresi (1851-1917), Veliero nella tempesta

 

DIRE NON DIRE

 

dire non dire, dissimulare dicendo, spostare

il segno, il confine – per evitare (che cosa?)

dev’essere infatti per ragioni pratiche che esiste,

da qualche parte, una realtà prestabilita

 

questo mare ingabbiato dalla sabbia, dove le code

e le cannule e le chele si esibiscono, acrobate,

e appaiono e scompaiono nelle frane, recinto

dalle reti, dalle griglie, dal grigio topo di questo

novembre di rancori,

con la tetraggine e il resto,

che gli si addice, e tu che ti introduci

con alghe morte e parrucca, le labbra serrate,

mentre sto ancora pensando a che consigli dare

(come sarebbe, dicono, democrazia o amore)

sulla provocazione, fruscìo di ciottoli, scroscio

di rudezza, tenerezza della pietra,

e il macinarsi insieme del dubbio – dev’essere

per ragioni pratiche, senza dimenticarti, o magari fingendo,

che uno si mette in tasca la notte,

se l’appallottola, la strappa con le unghie non visto,

la tortura come un rosario arabo, non tanto

per passare il tempo, ma per adeguarsi al dolore,

per stabilire il luogo dell’addio (cosa ce ne facciamo

di un dito infilato nella sabbia, di un rimando),

con questo mare che sbatte, che rotola e sgretola,

e la pioggia di traverso, il va e vieni del dramma

di chi non riconosce né il suono né il senso

 

del dire, non dire, dissimulare, annegare, spostare

la fitta, la ferita, il girotondo delle dita fra i capelli,

per ritrovarsi un’immagine (sua, mia, di lei, ecc.)

che poi risulta prestabilita – cosa ce ne facciamo

dei rapporti, dei meriti, degli errori, dei nodi, dei paradigmi

di questa cosa splendida e idiota – nemmeno fosse la vita

 

novembre 1976

 

 

***

 

 

CONFIDENZIALE

 

io che sono la prima persona di un tu che mi scivola

dalle tasche rigonfie, e manovra un po’ subdolo, amico

a serramanico, similitudine inquieta del voi,

per dimostrare che una scimmia non è Darwin, e astuto

passeggia con in testa il mio cappello, tentando

di costringermi sempre a salutarmi,

solo se mi allontano

si mette a fuoco, si attiene a un tic privato, si presenta

con un accenno di inchino, mi volta le spalle: qualcuno

mi tocca …

a condizione però che sia freddo

il luogo dell’incontro, il congegno del caso, nel caso

che per abuso di qualche verità si converta, e pretenda

di insinuarsi in un me, in un erratico oggetto

il cui profilo da terza persona potrebbe imbarazzarci

infilato nel cappio del racconto

 

(Da Recitazione obbligata, 1981)

 

***

 

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Remedios Varo, Los amantes, 1963

ALTEREGO SI OSSERVA IN UNA SPECOLA

 

Assomiglio, mi dicono, a Ulisse: probabilmente

per un torciglio di barba che si tesse

fra l’orecchio e le labbra con grazia solitaria, o perché

non busso mai alle porte, o non so riconoscere

nulla che non mi irriti. Un po’ veramente,

come sarebbe accaduto anche a Voltaire ritrovando

sempre la stessa natura morta, lei, ma perfino

lo spazio, la trama, fino a interrompere

l’interessante assurdo del racconto.

E quindi non mi giova.

Trovo la perfezione noiosa, il colore dei cani

mi piace che scodinzoli. Ogni volta

penso che lo zodiaco proponga lo stesso destino.

A che serve

metterci tanto tempo per illudersi?

Ma per fortuna il buio non ha movimento.

 

 

***

 

SOLO ORNAMENTO DI QUESTA PRIMAVERA

 

Tutto succede quando

si comincia di nuovo a non capire,

e il maltempo imperversa

anche nei mesi estivi, battendo sui fiori di cardo

seccati al davanzale con gli occhiali, e si cerca

di ricomporre a filo di qualche tavolaccio

la prospettiva sghemba delle nuvole.

Il tempo

scricchiola sotto il peso di troppe suppellettili

spostate qua e là per dedicarle a immagini del sacro

dove colonne di fumo si attorcono, e subito ti accorgi

che i servi portano in scena su un vassoio

un pasticcio di luna e di fuliggini.

A volte, con specchi

che si ritraggono opachi, entrano voci di donna, respiri

e frammenti di bocca che non sanno

come raggiungere le ultime parole pronunciate. Parole

che salgono nell’aria, si scontrano e ricadono

con quella stella che chiamano Assenzio. Ma il grillo

ruota le zampe a trottola in fondo al cilindro

che il personaggio viola, Monsieur, s’è levato nel buio

per salutare il passaggio di una lingua spenta, nel vento

che gli rastrella i capelli, e all’orizzonte

una capanna di paglia fiammeggia.

E così si finisce

con lo sperare che le acque salgano, e forse

si inventano parabole, anche se è sempre la paura a mettere

argini attorno al vuoto, e perfino il rumore delle ali

si increspa, proprio passando sotto alle ginocchia, e si vedono

sacchi a brandelli.

Se esci, ricordati

il dizionario, solo ornamento di questa primavera.

 

 

(Da La differenza, 1988)

 

***

 

 

TALPA CELESTE

essendo stato richiesto di scrivere sul tema del destino

 

Pensavo alla modestia della talpa,

alla raspante, angelicata attività di scavo

in un cielo che odora di terriccio, quadrato

forzato a farsi triangolo, vuoto e confine,

dove una frana non è mai un amen,

e i dolmen si rigonfiano in excelsis

nella sostanza profonda dell’aria, e lo sguardo

si inazzurra in se stesso, riattiva la visione

del chamalèo – se è lecito inventare

ciò che si finge, e che di conseguenza, ricercando

la direzione del pensato, il risveglio, la sua esecuzione,

ruspa come l’arùspice e si ròsica, al centro

di un’altra verità, quasi con grazia,

in lieve zampettìo di luce e cenere. Un segno

delle sorgenti. E qualcuno si affanna a domandare

chi le abbia insegnato queste cose. E chi altri,

se non tu costringendomi a parlare

contro la mia volontà? Animale terribile, sherpa

di grigi sempre più intensi, archeologo

della salita in discesa, del suo rovescio, simmetrico

esecutore di mura a precipizio, parola vagabonda

nel trapassato futuro, parvenza d’annegato

fra le zolle dell’etere, e desiderio, congegno

di qualche daimon di vanga, sospetto

impercettibile tric d’ogni deserto concavo. La volta

si sgretola frenetica fra i denti, riflette

e si riflette, finis, lungamente. Una cupola. Se

il cielo fosse un albero, il suo nome

sarebbe àphala: e infatti il seme è sempre

nella radice.

 

(Da Téchne)

***

 

 

IL PRIMO GIORNO DI PRIMAVERA

 

Qualcosa che qualcuno

farà di nuovo e di nuovo,

senza saperlo. Il candore

di questa umidità,

l’identità nascosta del monologo,

e il solito fruscìo

che risale negli alberi, le ossa

cadute dalla luna.

Su questo confine.

Con il nero delle lumache selvatiche.

Con la metà della notte che germoglia

per la lunghezza di un prato.

E magari l’arcangelo di sabbia.

Ma poi cosa ne hai fatto

di questa simmetria.

Ecco.

E la voce che parla da una riva all’altra.

E i nomi che dividono.

E quelli che si toccano la fronte.

Ma chi, perché, in che senso

mi state minacciando?

Con le zolle che perdono i capelli.

Con le figure che passano in abito leggero

per un sentiero che nemmeno sai.

Ebbene, mi rifiuto: ma allora

semplicemente la pioggia,

la causa, l’effetto,

la sua dimostrazione.

Questo paese abitato

da suoni impercettibili.

 

 

 

SENZA DATA

 

Perché portare a termine

quando nessuno, in giardino,

ha mai visto il mio glicine concluso.

Se allora fosse il fiore il fallimento,

questa, diremmo, è la bellezza del mondo,

la sua esperienza visibile.

 

(Da Il primo giorno di primavera)

 

*** 

 

 

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(Tutte le poesie qui presentate appartengono al volume Roberto Sanesi – Poesie 1957-2000, a cura di R. Cremante, edito da Mondadori nel 2010)

 

***

PAROLA RIFLETTENTE – NOTA A MARGINE (di Alba Gnazi)

[Sanesi lo conoscevo come traduttore di Eliot. Uno dei più noti, tra i traduttori italiani del Poeta. In effetti ignoravo, fino a non molto tempo fa, che Roberto Sanesi fosse un poeta a sua volta: fino a quando, per puro caso, mi sono imbattuta in alcune delle sue poesie: attraverso le quali ho conosciuto la Sua voce – e nelle quali ho riconosciuto certe Voci a me care e più note.

Leggere Sanesi è, per me, camminare a piedi certi nel dialogo costante, intenso,  indelebile del Poeta tra sé con sé e con il tempo, i fatti, le origini e le cose; con gli Autori-Maestri, Eliot in primis, che hanno informato i suoi percorsi; è affondare il passo nell’argilloso fondale di una ricerca mai fine a se stessa, ponderata da istanze metafisiche e linguistiche che trovano, nell’espressione poetica, pieno svolgimento.

sanesi
Roberto Sanesi

L’in-fieri, il senso del dinamismo (come ben delineato nella corposa prefazione del curatore del volume cui faccio riferimento, Renzo Cremante), del contraddittorio, della Ricerca (non a caso la metafora di Ulisse: il nostos interminabile del viaggiante, l’indefinita patria interiore)- che, mi si passi l’analogia, rievoca quasi la costruzione di una cattedrale, Sagrada e protesa a braccia larghe verso il cielo- questo senso talora sussurrato, talaltra più ferocemente esibito nell’accumulo lessicale, nella titolazione dei testi, nelle intenzioni più o meno percepite, più o meno latenti o (all’opposto) programmatiche della sua Poesia; la conclamata ricomposizione di un Sé pluricentrico, opposto a, e tradotto in, un Alter di cui si dice specchio causa e conseguenza; la lingua inglese, trasfusa nel dettato linguistico interiore, che plasma la versificazione con rimandi cadenze e ritmi ben presto riconoscibili come quid del suo poetare; le mura fortificate della Poesia anglosassone  -quella (appunto) tradotta, letta, studiata – e di quella italiana (echi di Luzi e Montale a sprazzi): leggere Sanesi, in questo novembre di brume e brulichii, conviene all’animo mai sazio, alla Ricerca personale che diventa ricerca altrui e (per estensione) collettiva; a conservare, dilatandoli,  certi echi in altri tempi e altre circostanze spiaggiati alla memoria; a rifinire, scontornandolo, il tessuto di una domanda sempre aperta – come una traduzione, una costruzione, un apprendimento: in fieri e lifelong.]

 

 

***

(Articolo a cura di Alba Gnazi)

Parola riflettente: Roberto Sanesi: Dire, non dire – con nota a margine

La stagione rilassata – Cinque Poete

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Georgia O’Keeffe, ”From the Lake”

 

Notturno invernale

 

 

Così lieve è il tuo passo, fanciullo,

che quasi non t’odo,

dietro me, sul sentiero.

E così pura è l’ora, così puro

il lume delle grandi stelle

nel cielo viola

che l’anima schiarisce

dentro la notte

come i tetri pini che albeggiano

nel biancore della neve.

Un alto sonno tiene la foresta

ed i monti

e tutta la terra.

Come una grazia cade

dal cielo il silenzio.

Ed io ti sento l’anima battere,

dietro il silenzio,

come un filo vivo di acque

dietro un velo di ghiaccio

e il cuore mi trema,

come trema il viandante

quando il vento gli porta

attraverso la notte

l’eco d’un altro passo

che segue il suo cammino.

Fanciullo, fanciullo,

sopra il mio cammino,

che va per una landa senza ombre,

sono i tuoi puri occhi

due miracolose corolle

sbocciate a lavarmi lo sguardo.

Fanciullo, noi siamo

in quest’ora divina

due rondini che s’incrociano

nell’infinito cielo,

prima di mettersi in rotta

per plaghe remote.

E domani saremo soli

col nostro cuore

verso il nostro destino.

Ma ancora, nel profondo, tremerà

il palpito lontano delle ali sorelle

e si convertirà

in nuova ansia di volo.

 

(Antonia Pozzi, in ”Poesia che mi guardi”)

 

*****

 

Svernare

 

 

Questa è la stagione rilassata, non c’è niente da fare.

Ho fatto girare lo smielatore della levatrice,

ho il mio miele,

sei vasetti,

sei occhi di gatto in cantina,

 

che svernano in un buio senza finestra

nel cuore della casa

accanto alla marmellata rancida dell’inquilino precedente

e alle bottiglie di vacui luccichii ——

il gin di Sir Tal-dei-Tali.

 

Questa è la stanza in cui non sono mai entrata.

Questa è la stanza in cui non ho mai potuto respirare.

Il nero vi è raggomitolato come un pipistrello,

nessuna luce

oltre alla pila

e al suo debole

 

giallo cinese su oggetti spaventosi ——

Nera imbecillità. Sfacelo.

Possessione.

Sono loro a possedermi.

Né crudeli né indifferenti,

 

solo ignoranti.

Questa è la stagione della resistenza per le api — le api

così lente che le riconosco a stento,

sfilano come soldati

fino alla lattina dello sciroppo,

risarcimento del miele che ho tolto loro.

Tirano avanti grazie a Tate e Lyle,

la neve raffinata.

Vivono di Tate e Lyle invece che di fiori.

Lo accettano. Arriva il freddo.

 

Ora si raccolgono in una palla,

nera

mente contro tutto quel bianco.

Il sorriso della neve è bianco.

Si allarga, corpo di porcellana Meissen lungo un miglio

 

nel quale, nelle giornate tiepide,

possono solamente portare i loro morti.

Le api sono tutte donne,

le vergini e la lunga signora regale.

Si sono sbarazzate degli uomini,

 

tangheri goffi e tozzi, nullità.

L’inverno è per le donne —–

la donna, che continua il suo lavoro a maglia

accanto alla culla di noce spagnolo,

il suo corpo un bulbo nel freddo e troppo istupidito per pensare.

 

Sopravviverà l’alveare, riusciranno i gladioli

a conservare in vita i loro fuochi

per entrare in un nuovo anno?

Che sapore avranno le rose di Natale?

Le api volano. Sentono il sapore della primavera.

 

(Sylvia Plath, ‘’Wintering’’, in ”Poesie”; trad. di Anna Ravano)

 

*****

 

 

Non resta più niente dell’estate verde

 

 

Non resta più niente dell’estate verde

sepolta nell’erba stordita e ferma.

Ci sono le mani a fare questo tempo

gli uccelli, il gonfio tuono all’orizzonte,

 

ci sono piedi selvatici a venirci incontro

come un’onda schiacciata, contusa

sulla nuca, umida, tonda. Non resta

più niente degli occhi tenuti stretti

 

le montagne aspre, involate

nell’aria debole dietro al fiume e sopra

ogni altra cosa. Se potessi svegliare i merli,

allontanare dal fuso orario l’orgoglio,

 

girare la testa verso levante, conoscere

l’ardore del volo in assenza di saggezza,

raccoglierei i capelli in una treccia infinita

comincerei a cadere a balzi, di sera in sera,

 

per svanire in pace, nuda, distratta.

 

(Rita Pacilio, Da ‘Prima di andare’, La Vita Felice 2016)

 

*****

 

 

ininverno

 

 

#7

Sugli aghi accucciati

l’aria ferma

a succhiare in silenzio

i passi:  si appressa la neve.

Un soffio, a premere,

aria

sulle fronde, sulla fronte,

di nuovo.

 

 

#8

Sugli aghi affacciati

sui colatoi di luce

sui tetti tremuli

la goccia

albina

d’algida eccitazione

curva le letargie apparenti

senza compassi umani.

La neve orecchia un fiato soffocato

_ ciano ascolto raccolto

in forma di cristallo

 

(Patrizia Sardisco, da ‘Senza compassi umani’, silloge inedita)

 

*****

 

L’assunto indimostrabile del respiro

 

 

In una qualsiasi ora tracciata

da inossidate voglie,

sul volger mite della sera la tenda

stringe assalti ai

tubuli di polvere rappresi

tra le ombre; una poltrona

allungata su intenerite ninne-nanne

estirpate alla memoria: voci

sommerse in scricchiolii

di tramonto: immaginazioni di manifattura

incerta. Un privilegio poter

osservare, sul pizzicato urgente

che scandisce dondolii,

la fermezza cinetica del pomeriggio

che s’appella

all’assunto indimostrabile

del respiro, la rada cucitura

del porto e delle vele

che d’un tratto più scura

s’ingobba

sulla mano lenta che

i vetri accosta e il lume

varia: senza indugi.

 

(Alba Gnazi; poesia pubblicata nel settimo e-book  de ‘’I Quaderni di Erato’’)

 

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Georgia O’Keeffe, ”Starlight Night”

(Articolo a cura di Alba Gnazi)

 

La stagione rilassata – Cinque Poete

Appuntamento a ora insolita

sereni-appuntamento

 

La città – mi dico – dove l’ombra
quasi più deliziosa è della luce
come sfavilla tutta nuova al mattino…
«…asciuga il temporale di stanotte» – ride
la mia gioia tornata accanto a me
dopo un breve distacco.
«Asciuga al sole le sue contraddizioni»
– torvo, già sul punto di cedere, ribatto.
Ma la forma l’immagine il sembiante
– d’angelo avrei detto in altri tempi –
risorto accanto a me nella vetrina:
«Caro – mi dileggia apertamente – caro,
con quella faccia di vacanza. E pensi
alla città socialista?».
Ha vinto. E già mi sciolgo: «Non
arriverò a vederla» le rispondo.
            (Non saremo
più insieme, dovrei dire). «Ma è giusto,
fai bene a non badarmi se dico queste cose,
se le dico per odio di qualcuno
o rabbia per qualcosa. Ma credi all’altra
cosa che si fa strada in me di tanto in tanto
che in sé le altre include e le fa splendide,
rara come questa mattina di settembre…
giusto di te tra me e me parlavo:
della gioia.»
      Mi prende sottobraccio.
«Non è vero che è rara, – mi correggo – c’è,
la si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. È
quest’ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un’arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza.
            Potrei
con questa uccidere, con la sola gioia…».

Ma dove sei, dove ti sei mai persa?

«È a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione»
dico alla vetrina ritornata deserta.

Vittorio Sereni, da Gli strumenti umani, Einaudi 1965

Appuntamento a ora insolita

I corridoi delle formiche

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Claude Monet

Ti ricordo, sostieni,
la siepe oltre il giardino,
quella che s’addentra
nei corridoi delle formiche, dove
bugiardi sciamani non videro ombre,
mentre nel legno
s’addensavano mugolii.

Contro di me hai sferrato
pudori e controsensi, colpevole
di onestà da contrabbando
e forse ignori
che la siepe dinanzi al giardino
d’inverno soffoca di luce
e le faine ogni notte mozzano teste.

Un dì sentii che Casa
è uno stato d’animo
Io dico che una siepe
È uno stato d’animo,
Una siepe,
le ossa che inghiotte,
oppure i gas
smarriti dalle voci,
o gli aloni all’incrocio dei sudori

Una siepe è astio e connivenza,
duole al cranio raccattarne gli idiomi:
Paglie romanzate dal libeccio, nel
Corteo funebre delle api al tramonto.

Mi hai studiato in due tempi, con me
E senza me
Hai oltraggiato la siepe coi tuoi risvegli
Coi bouquet consumati dall’ansia
Di non essere lanciati
Col dipinto della mia schiena come
un muro cui aggrapparti, inconsistente
tale a questa siepe:
tempio, carcere, famiglia,
lantana per olmi
svezzati da uno scorcio,
lettera di pane e terra
per i dormienti delle colline.

Hai tre rose brevi strette in mano
e un chiodo per contrappeso
a un amore che
non ti fa domande,
che s’addentra con la siepe
nei corridoi delle formiche.

Alba Gnazi, Luccicanze 2015

Luccicanze copertina

I corridoi delle formiche

il tempo crudo

 

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#1
Rotatoria di anni
le deviazioni addosso.

Tra le scapole strade come gore
sterro di attesa e asfalto

più piceo nel miraggio
di un ammorbidimento della crosta.

Le uscite per il mare
senza le indicazioni

 

#2
E ora _ lattea d’albume nel suo brodo
la perla che s’aggruma il tempo crudo _

giunge dolce e schiarita questa notte
la veglia il novilunio e il mare è bianco

prende abbrivo la vela di una stella
sulla mia fronte è l’arco dell’aurora

 

#3
ti cullo, sono buccia, tu il mio seme

vento_ respiro tra le nasse stese
arrese e nude d’acqua sulle chiglie

mare _ risacca nel mio ventre opaco
bascula a sedimento di alghe ciane

ti cullo, sono luna. E tu il mio mare

Patrizia Sardisco

 

Le poesie presentate sono già state pubblicate su Versante Ripido qui e, tradotte in inglese su Parallel texts qui

il tempo crudo

Un Posto, di Domenica – Cinque poete

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Henri Matisse, La Danza

(del senso fitto 

danzante

non distraibile

delle Cose)

***

 

È terra la sostanza del mio dire

è terra di quella calpestata

è terra secca spaccata nel suo buco

è terra conquistata da una terra

invisibile che fa impasto d’amore.

 

Avessi l’arte di scomparire

avessi l’arte di sminuirmi fino

allo stuoino sulla porta d’entrata

avessi quel largo di porta spalancata

avessi quel largo delle pianure

che accolgono il viandante

senza lamentele.

 

Avessi la pietà, avessi l’inchino

del palmizio e del fiore.

 

Ma tutti i santi del paradiso e tutte

le fulgide divinità d’oriente

tutti i trentadue savi

si nascondono nelle mie nicchie

si sfaccendano ammutoliti

nel mio sangue,

si distraggono dal mio bussare spazientito

inciampandomi, annodandomi,

spettinandomi.

 

Avete silenzi per me,

avete cavità di silenzio così spaventose

avete la durata d’un silenzio dispettoso

spaventoso e dispettoso che io

cavalco in lungo e in largo

scolorita da tanto vostro tacere

atterrita e scolorita da tanto vostro tacere.

 

Eppure girovagate nel mio sangue

spadroneggiate nel mio assopito sangue

col vostro assillo mattiniero

col vostro assillo pomeridiano con le

campane che mi suonate la notte

con le vostre campane di silenzio

che mi perforano.

 

Dormitemi pure dentro, con le

barbe immense, bastone,

tazza, sandalo impolverato,

vostri nomi scomparsi da tutte

le biblioteche, vostri

abbeveratoi, vostra probabile

luce. Dormitemi. Sognatemi.

 

E venga il sogno africano

quando le palme

e tutti i cammelli e

le lavandaie sul fiume

dormono.

 

(Mariangela Gualtieri, da Voci tempestate, in Senza polvere senza peso, G. Einaudi Editore 2016)

 

 

***

 

 

IL BALLO

 

Finché non si sa ancora nulla di certo,

non essendo arrivati segnali,

 

finché la Terra continua a esser diversa

dai pianeti più vicini e più lontani,

 

finché non c’è neanche l’ombra

di altre erbe onorate dal vento,

di altri alberi incoronati,

di altri animali dimostrati come i nostri,

 

finché non c’è eco, tranne quella del posto,

capace di parlare con le sillabe,

 

finché non si hanno nuove

di mozart migliori o peggiori,

di edison o platoni in qualche luogo,

 

finché i nostri crimini

possono rivaleggiare soltanto fra loro,

 

finché la nostra bontà

per adesso non è ancora simile a nessuna,

ed è eccezionale perfino nell’imperfezione,

 

finché le nostre teste piene di illusioni

passano per le uniche teste piene di illusioni,

 

finché solo dalle nostre volte palatine

si levano grida agli alti cieli –

 

sentiamoci ospiti speciali e distinti

nella balera del posto,

balliamo al ritmo dell’orchestrina locale

e ci sembri pure

che sia il ballo dei balli.

 

Non so agli altri –

per essere felice e infelice

a me basta e avanza questo:

 

una dimessa provincia

dove anche le stelle sonnecchiano

e ammiccano nella sua direzione

non significativamente.

 

(Wisława Szymborska, da ‘’Chwila’’ – Attimo in La gioia di scrivere  -Tutte le poesie (1945-2009); Adelphi Edizioni 2009; trad. italiana a cura di Pietro Marchesani)

 

 

***

 

UNA COSA CHE NON SO DIRE

 

Ascolta, ecco, anch’io ti parlo degli oggetti

ti racconto che in questa stanza c’era un letto

dove ora c’è una parete bianca spoglia

dove domani – o un altro giorno – appenderò la foto

incorniciata argento che scatteremo insieme

quando verrai, quando il legno secco della mia porta

scolorirà piano piano al tocco della tua mano lento

nel bussare

 

Vedi, ecco, anch’io ci provo a dire della scala

che non ho mai saltato i suoi gradini in cima

e della sedia morbida di rosso che gira fissa

al bordo teso della mia scrivania e poi, sì,

della finestra che ti vorrei incontrare di lontano

riflesso, una sagoma appena, ma non tu

-nel viale a passi svelti – ma il volto nudo dell’assenza

che si confonde nell’attesa al tuo

 

(e non sei tu che voglio in quella foto

e non sei tu che siedi la mia sedia e scrivo

e non sei tu che Sali l’ultimo gradino

fino alla porta chiusa e al letto, il letto

un altro uomo se l’è portato via

e resta – una parola – il sonno denso dell’infanzia

che schiaccia all’improvviso gli occhi al buio)

 

Guarda, ecco anch’io (non) dormo

come una cosa che non so dire, come un oggetto

dimenticato rotto – in pezzi, quanti –

 

e tu aiutami a contarli, sottovoce, ad uno ad uno.

 

(Silvia Rosa, da Amore centro in Genealogia imperfetta, La Vita Felice 2014)

 

***

 

A CUSTODIA DI LAMPI

 

 

a custodia di lampi

 

_ in caso di emergenza

 

il vetro _ ché mi piove

 

 

 

l’ora a rigovernare

 

i pensieri feriali

 

dentro un frasario pensile

 

 

 

il giudizio sospeso

 

_ un bilico di piatti

 

ed asciutti pensieri

 

 

 

impilati per bene _

 

a equilibrio sofistico

 

(Patrizia Sardisco)

 

 

***

 

 

 

LA CECITÀ DELLE COSE

 

La cecità composta delle piccole cose

piccole parvenze a forma di cosa

efelidi d’ombra accanite sul muro, cose

trattate insufficienti

madri declinanti col piatto

sempre apparecchiato

cose-corpo

sull’orlo delle lacrime

in bilico

fra intermezzi di cose

 

 

tarli d’indulgenza grattan cose

mucchi e granuli di pazienza, cose

in sospensione orale

per  liberare le vie aeree

dalle cose, uno starnuto,

uno stantuffo di tosse,

altre piccole cieche cose

 

(Alba Gnazi, in Verdemare – raccolta inedita)

 

 

***

 

 

(Articolo a cura di Alba Gnazi)

Un Posto, di Domenica – Cinque poete

Pantomime terrestri (”ogni vita è solo se stessa”)

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Edvard Munch, L’isola

 

PANTOMIMA TERRESTRE

…auprès de margelles dont on a soustrait

les puits.

RENÈ CHAR

 

Ma senti – dice – che meraviglia quel cip sulle piante

di ramo in ramo come se il poker continuasse all’aperto:

dimmi se non è stupenda la vita.

 

Chiaro che cerca di prendermi per il mio verso.

Vorrei rispondergli con un’inezia della mente

un’altra delle mie tra le tante

(gente screziata di luna, per porticati

e uno attorno tra loro, dall’uno all’altro:

assaggiate questa fresca delizia).

 

Certo, – rispondo invece – è stupenda. Vuoi testimoni?

Prove per assurdo? Controprove?

Eccoti di giorno in giorno la mia acredine

la mia insofferenza di gente in gente

(ma queste brezze tra le secche e le rapide

tra i diluvi e le requie dell’essere questi balsami …).

 

Pare bastargli: ma dunque (benedicente, bonario)

ma allora, coraggio!

Per giravolte di scale

va su col suo coraggio.

Parli – gli grido dietro –

come un credente di non importa che fede.

E lui per rami di scale, mezza faccia già disfatta

mezza in ombra, canzonandomi con parole d’autore: ¿le gusta

este jardin que es suyo? Evite…

dal basso gli completo la frase: que sus hijos lo destruyan

rifacendogli il verso.

 

Ma se è già guasto, con queste stesse mani:

e tu chi sei tu così avanti sulla scala del giudizio

e del valore, dillo ai tuoi discepoli e seguaci

ai tuoi consoci, vengano a questi bicchieri

di delizia a questi apparati di fresco

ma in comunione ma tutti ma in una volta sola.

 

È rimasta una chiazza una pozza di luce

non convinta di sé un pozzo di lavoro con attorno

un girotondo di prigionieri (dicono) sulla parola:

sanno di un bagliore che verrà

con dentro, a catena, tutti i colori della vita

– e sarà insostenibile.

 

Sembra allora di capirlo a che si ostinano

dove puntano che cosa vogliono o non vogliono

che cosa negano che scappatoie infilano

i motori nella giostra serale

con quelli che fingono a ogni giro di andare via per sempre

con quelli che fingono a ogni giro di arrivare

dentro un paese nuovo per cominciare ex novo

– e i primi lampi

lo scroscio sulle foglie

                                                         l’insensatezza estiva.

 

VITTORIO SERENI, da GLI STRUMENTI UMANI,  in POESIE E PROSE, Mondadori 2014 (rist.)

 

 

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Edvard Munch, Uomo e Donna

 

 

IL PRIMO GENNAIO

 

So che si può vivere

non esistendo,

emersi da una quinta, da un fondale,

da un fuori che non c’è se mai nessuno

l’ha veduto.

So che si può esistere

non vivendo,

con radici strappate da ogni vento

se anche non muove foglia e non un soffio increspa

l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.

So che non c’è magia

di filtro o d’infusione

che possano spiegare come di te s’azzuffino

dita e capelli, come il tuo riso esploda

nel suo ringraziamento

al minuscolo dio a cui ti affidi,

d’ora in ora diverso, e ne diffidi.

So che mai ti sei posta

il come -il dove- il perché,

pigramente indisposta

al disponibile,

distratta rassegnata al non importa,

al non so quando o quanto, assorta in un oscuro

germinale di larve e arborescenze.

So che quello che afferri,

oggetto o mano, penna o portacenere,

brucia e non se n’accorge,

né te n’avvedi tu animale innocente

inconsapevole

di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra

e una sostanza, un raggio che si oscura.

So che si può vivere

nel fuochetto di paglia dell’emulazione

senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato

da Chi volle che tu fossi … e se ne pentì.

Ora

uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti

lo scheletro dell’albero di Natale,

ti accompagna in sordina il mangianastri,

torni dentro, allo specchio ti dispiaci,

ti getti a terra, con lo straccio scrosti

dal pavimento le orme degl’intrusi.

Erano tanti e il più impresentabile

di tutti perché gli altri almeno parlano,

io, a bocca chiusa.

 

EUGENIO MONTALE, da SATURA II, in TUTTE LE POESIE, Mondadori 2005 (rist.)

 

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Edvard Munch, Separazione

 

 

UNA SERA COME TANTE

 

Una sera come tante, e nuovamente

noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro

settimo piano, dopo i soliti urli

i bambini si sono addormentati,

e dorme anche il cucciolo i cui escrementi

un’altra volta nello studio abbiamo trovati.

Lo batti col giornale, i suoi guaìti commenti.

 

Una sera come tante, e i miei proponimenti

intatti, in apparenza, come anni

or sono, anzi più chiari, più concreti:

scrivere versi cristiani in cui si mostri

che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;

duo ore almeno ogni giorno per me;

basta con la bontà, qualche volta mentire.

 

Una sera come tante (quante ne resta a morire

di sere come questa?) e non tentato da nulla,

dico dal sonno, dalla voglia di bere,

o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,

né dalle mie impiegatizie frustrazioni:

mi ridomando, vorrei sapere,

se un giorno sarò meno stanco, se illusioni

 

siano le antiche speranze della salvezza;

o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente

la sorte di ogni altro, non volgare

letteratura ma vita che si piega al suo vertice,

senza più né virtù né giovinezza.

Potremo avere domani una vita più semplice?

Ha un fine il nostro subire il presente?

 

Ma che si viva o si muoia è indifferente,

se private persone senza storia

siamo, lettori di giornali, spettatori

televisivi, utenti di servizi:

dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,

in compagnia di molti sommare i nostri vizi,

non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

 

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.

È nostalgia di futuro che mi estenua,

ma poi d’un sorriso si appaga o di un come – se – fosse!

Da quanti anni non vedo un fiume in piena?

Da quanto in questa viltà ci assicura

La nostra disciplina senza percosse?

Da quanto ha nome bontà la paura?

 

Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura

che dice: domani, domani … pur sapendo

che il nostro domani era già ieri da sempre.

La verità chiedeva assai più semplici tempre.

Ride il tranquillo despota che lo sa:

mi numera fra i suoi luoghi lungo la strada che scendo.

C’è più onore in tradire che in esser fedeli a metà.

 

GIOVANNI GIUDICI, da LA VITA IN VERSI, in TUTTE LE POESIE, Mondadori 2014

 

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Edvard Munch, Sera lungo il viale Karl Johan

 

 

PURE MORNING

 

 

L’urto delle gocce sulle foglie,

la condensa, la luce che rischiara

i gerani strappati e ancora vivi nel vapore

del ghiaccio che si scioglie,

la terra sparsa sul balcone dai vasi – vedevamo

una periferia enorme oltre le grate

del terrazzo e nelle luci

di case le persone vivere,

mettere nel buio le stanze illuminate; e poi più in là

tra gli spazi vuoti, i fili e il muro

della circonvallazione, cominciava

la rete dei viali e la metropoli

immensa si mostrava. Dopo, se il cielo

diventava chiaro e le colonne

dei fari segnavano le strade, il rombo

fuori dai vetri era pieno

delle vite che vedevo

rapprendersi in quegli attimi, quando la fila

delle auto si ferma e ci guardiamo

esistere dai finestrini, tra i fanali,

il loro cerchio nel cono della pioggia, dentro i secoli

che ora mi vengono incontro

dai campi coltivati, dai caselli

di Milano se la nebbia si dischiude. Ogni vita

è solo se stessa : questa luce

bassa sulle case, i primi treni

che aprono il vento e ci sorprendono

in una specie di torpore,

la pastiglia nel bicchiere, gli adolescenti,

nel video, che cantano il dolore;

quando sembra che la mente nasconda

a se stessa il gusto di fuggire

la mattinata pura, i fatti nudi,

nel rumore di tutti il tempo che si perde

per essere solo ciò che siamo adesso,

per diventare solo solitudine.

 

 

GUIDO MAZZONI,  da I MONDI, Donzelli 2010

 

 

(Articolo a cura di Alba Gnazi)

Pantomime terrestri (”ogni vita è solo se stessa”)

La Terrazza dei Maestri: Giorgio Caproni

giorgio-caproni

VII

Le giovinette così nude e umane
senza maglia sul fiume, con che miti
membra, presso le pietre acri e l’odore
stupefatto dell’acqua, aprono inviti
taciturni nel sangue! Mentre il sole
sale le loro dolci reni e l’aria
ha l’agrezza dei corpi, io in che parole
fuggo – perché m’esilio a una contraria
vita, dove quei teneri sudori,
sciolti da pori vergini, non hanno
che il respiro di un nome?… Dagli afrori
leggeri dei capelli nacque il danno
che il mio cuore ora sconta. E ai bei madori
terrestri, ecco che oppongo: oh versi! oh danno!

(da Il passaggio di Enea, 1943-1955)

 

***

 

Piuma

Mia pagina leggera:
piuma di primavera.
Nella mattina di marzo,
dentro un sole di quarzo,
ragazze fuori porta
(transitorie e sincere)
passano, vive e vere,
dischiusa la bocca commossa.
Ragazze calde e alte,
tra il verde delle piante.
Ragazze quasi campagne
e marine, il cui sangue
accende, ventilata,
l’aria, che n’è illuminata.
Ragazze in carne e in colore,
da matrimonio d’amore.
Ma ohi come la più fina
manca di loro: Annina!

(da Il seme del piangere, 1959)

 

***

 

Araldica

Amore, com’è ferito
Il secolo, e come siamo soli
– tu, io – nel grigiore
che non ha nome. Finito
è il tempo dell’usignolo
e del leone. Il blasone
è infranto. Il liocorno
orma non ha lasciato
sul suolo: l’Ombra, è in cuore.

(da Il muro della terra, 1964-1975)

 

***

 

L’ombra e il canto

Ero entrato in chiesa con l’erba.

Non c’era nessun altro.

Soltanto
io e quell’odore d’erba
entrato con me.

C’era fresco.
Per quanto mi sforzi, non riesco
a ricordare il canto
e l’ombra che la mia mente serba.

(L’ombra e il canto dell’erba?)

(Da Il conte di Kevenhuller, 1986)

 

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Le poesie presentate sono tratte da Caproni, Tutte le poesie, Garzanti 2016

Foto: fonte web

 

(Selezione a cura di Patrizia Sardisco)

La Terrazza dei Maestri: Giorgio Caproni

FaceToFace: aria e rigore

donne che corrono picasso
Due donne che corrono sulla spiaggia, Picasso 1922

Forse mi vedi, tu
pendere dall’alto
getto i sacchi di sabbia e le zavorre
hanno bocche di sogni senza fiato
le palpebre di carta. Scrivo dentro

Dall’alto è marea d’aria d’alticumuli
col ghiaccio sulla fronte
nulla mi strappa a me
ho un chiodo in mano
e nulla

nemmeno un orizzonte da rigare
da quest’altra parte del destino
solo rigore e aria, aria e rigore.

Patrizia Sardisco, agosto 2016

 

Solo aria e rigore – dici –
ma tu sei salto e frangivento per cicogne
sposate a odor di nebbia –
ubbia per apostoli del sole,
cengia brulla ai brulichii dell’alba, rimpianto
sgrumato da un presente,
da un bisogno
di soppiatto sfiorato, come quando
al Lungotevere raccontasti
la traiettoria di un abbraccio
che muto ti sopraffece –
e fosti canale e ambra
per memorie,
rigate da *mani
a difesa di te

così largo il giorno
se lo intessi del tuo respiro.

Alba Gnazi, Agosto 2016

*da un verso di Vittorio Sereni

 

donne che corrono - specchiate picasso.jpg

(Articolo a cura di Patrizia Sardisco)

FaceToFace: aria e rigore